Nel corso di un programma televisivo dedicato a Oriana Fallaci, sul video passò limmagine di una classe liceale. Accanto allOriana, come dabitudine, mia sorella Giò: conoscevo bene quella foto, custodita in casa nostra con altri cimeli cari alla memoria.
Si trattava della seconda (o della terza?) C del «Galileo» di Firenze: primavera del 1946 o del 47. Alunno delle elementari, osavo immischiarmi nella cerchia dei più grandi. Se davo fastidio, non me lo facevano capire. E nessuno sembrava disposto a dar confidenza più dellOriana. In seguito il legame si rafforzò per essermi trovato io, alle medie e al ginnasio, in classe con la Paola, terza e ultima delle sorelle Fallaci, destinata anche lei al giornalismo, come la Neera, autrice di un bel libro su don Milani. Seppi a suo tempo di quanto era stata coraggiosa lOriana quindicenne, staffetta nella resistenza fiorentina; e degli ideali che univano le nostre famiglie, i padri militanti ambedue nel partito dazione.
Mia sorella non aveva partecipato alla lotta così dal vivo come la sua amica, ma il sostegno dato al governo della casa durante le due prigionie del Babbo e poi nei mesi della sua esperienza di partigiano valeva forse altrettanto. Lamicizia non si allentò quando lOriana decise di seguire la vocazione giornalistica, mentre Giò, iscritta a Fisica, impegnava il più delle sue giornate ad Arcetri. Cè unistantanea che le ritrae insieme al Piazzale Michelangelo, non lontano, appunto, dallOsservatorio Astronomico frequentato da mia sorella. Due ragazze di una ventina danni che camminano tenendosi a braccetto. Gli alberi spogli dicono che è inverno: linverno del 48 o del 49. Quel periodo, nel mio ricordo, si conclude con le nozze di Giò (fine 53): testimone lOriana, che nellestate del 55 le fa visita a Sestri Levante, dove conosce la primogenita della sua migliore amica. Nel 55 il nome di Oriana Fallaci aveva varcato le mura di Firenze; lavorava per Epoca, se non sbaglio. Amabilmente, lOriana mi dava spago. Era cambiata, certo; ma in quellàmbito domestico il collante delle memorie comuni funzionava ancora.
La discreta coerenza degli episodi che legano le vicende dellOriana a quelle della mia famiglia sinterrompe col (meritatissimo) crescere della fama della giornalista, degli impegni dellinviata. Celebre, senza dubbio, era lOriana che risalutai e che mi abbracciò, nel 1966 o 67, a una presentazione fiorentina di Se il sole muore. Mi parve che tra lei e parte del pubblico aleggiasse un antipatico malinteso, il solito sospetto relativo a quel discrimine, ovvio per molti, che separa il giornalismo, seppur di qualità, dalla letteratura. I due generi, i due canoni, dovrebbero rimanere distinti. E dunque, lacclamata Fallaci si goda la sua gloria di giornalista ma non pretenda un ingresso nei repertori della letteratura novecentesca.
Pregiudizio? Opinione fondata? Come che sia, il rito stucchevole delle dediche agli acquirenti del libro si protrasse tanto a lungo che poi mi mancò quasi il tempo di darle notizie di Giò e degli altri familiari. Da quel momento, seguii lOriana solo sulla carta stampata: ammirandone generalmente i reportage e le interviste; un po meno i romanzi, proprio a causa di quello che era poi il segreto della loro fortuna commerciale, un abile incrocio fra il taglio giornalistico moderno e uno stile che vorrei chiamare «toscano» e che nei licei di una volta era di solido aiuto allo svolgimento del tema (in italiano scritto lOriana aveva 9, come Giò).
Il trasferimento dellOriana a New York accentuò le distanze. Non avendo il suo indirizzo, non la informai della morte di mia sorella, nel 1985. Ma allinizio del nuovo secolo, a unallieva che desiderava laurearsi su una scrittrice-giornalista indicai la Fallaci, adoperandomi perché si incontrassero.
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