Mentre in America infuria la guerra civile dei due ottimismi, l’ottimismo teocon dei repubblicani e l’ottimismo progressista di Obama, l’anima vera e tragica dell’America e del nostro tempo si ritrova intorno al collo di David Foster Wallace che proprio oggi, quattro anni fa, s’impiccò.
È la prima volta che mi capita di parlare di uno scrittore morto ma nato dopo di me.
Oggi Wallace avrebbe 50 anni e i suoi libri scatenano conflitti sul web. Wallace non è portatore sano del nichilismo d’oggi, non descrive da fuori l’America depressa e imbottita di farmaci, ma scrive col suo sangue, con la sua depressione e il suo Nardil, la sua malattia narcisista, fino al suicidio.
Specchio ironico dell’America profonda e profondamente superficiale, Wallace ha visto «il vuoto spirituale dell’America postmoderna », le violenze sessuali, le manie e le volgarità, la noia e lo schifo, i falliti spirituali dagli «occhi smorti».
È il biografo inquietante di una generazione che «quanto a valori significativi dell’esistenza non ha avuto in eredità assolutamente nulla».
Wallace ha condotto gli Usa nel viaggio di ritorno da Nietzsche a Leopardi. In stile yankee.
Cercò una via d’uscita all’infelicità e un «defibrillatore per le particelle di magia e di umanità che ancora esistono nel mondo e che brillano nonostante la fitta oscurità della nostra epoca ».Cercò la gioia della luce e del «semplice dono di essere vivi», ma i cani della notte alla fine lo azzannarono al collo.
Leopardi, risorto e poi morto in America, si faceva chiamare Wallace.
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