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Quarti di nobiltà: onore ai perdenti

Per dimenticare la medaglia più dura l'Italia rende omaggio al primo dei perdenti. Molti i premiati: a Pechino il record con 13 quarti posti. Per l'atleta è il risultato peggiore

Quarti di nobiltà: 
onore ai perdenti

Guardi la faccia di quello là, quello là arrivato quarto e scopri che c’è chi sta peggio. Puoi essere ultimo, ma almeno non ti senti il primo dei perdenti. Quel tanto di romantico che ancora ci accompagna nello sport, vuol che si celebri l’intramontabile solitudine di chi è arrivato quarto, che poi è la solitudine del portiere mentre gli altri fanno gol, quella del maratoneta che vede davanti a sé un orizzonte di asfalto, quella del nuotatore che sbraccia per chilometri in compagnia della linea del fondo vasca, quella del ciclista che si arrampica sui tornanti o sbuffa lanciato come una motoretta. Solitudine e speranza possono essere tutt’uno. Ma per una medaglia di legno, o se volete per un quarto di nobiltà, resta solo la solitudine. La speranza se n’è già andata. Ed è peggio. Quanti sguardi lunghi, quanti sorrisi spenti.
L’Italia è un Paese dove il confine tra sconfitto e perdente, che sembrano la stessa cosa ma non lo sono, rischia di essere abissale. Lo sconfitto arriva secondo o terzo. Il perdente è quello che arriva quarto. Nella dizione nostra, noi sportivi del bar e dell’ultrà facile, perdente è perfino più aspro di pentito. Il pentito ha una riabilitazione davanti. Il perdente solo il peso di una occasione buttata. La prossima sarà una rivincita, non una riabilitazione. Il quarto posto ti pone nella terra di nessuno, è il limbo dei sorrisi mancati. Se guardiamo alle Olimpiadi, l’Italia non sta male: dal 1896 ne sono stati contati 158, quanti le medaglie d’argento azzurre. I giochi di Pechino ci hanno indelicatamente resi protagonisti: 13 medaglie di legno, numero da record. Ad Atene furono solo quattro, un primato in positivo.

Ed allora meglio dimenticare o meglio ricordare? Ieri a Roma la «solitudine dei numeri quattro» è stata occasione per ricordare. Forse per insegnare qualcosa. Per dir loro: bravi lo stesso. Il galà in nome dei «valori dello sport», celebrato all’istituto S. Leone Magno, ci ha riportati ai 13 sogni perduti. Elenchiamoli per ricordare e non per infierire: la nazionale di volley, le staffette maschili e femminili del nuoto, i canoisti del k4 con Antonio Rossi, Alessio Boggiatto (nuoto) e Valerio Cleri (nuoto di fondo), Giovanna Trillini (scherma) e i fratelli Sibello della vela, Veronica Calabrese (taekwondo), Igor Cassina e Andrea Coppolino (ginnastica), le ragazze della ginnastica ritmica, i canottieri Luini e Miani.

Si dice: lo sport insegna correttezza e lealtà. Tanto basta. Ma lo sport di oggi insegna che la solitudine del quarto posto ti fa vedere l’altra faccia della medaglia: quella senza sponsor e feste, senza premiazioni e adulazioni. Quella che ti insegna a soffrire, sapendo che non ci sarà rivincita. Solo riabilitazione.

E ogni medaglia lasciata è persa.

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