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Il quartiere dei mille affari dove nessuno muore mai

Una comunità di 12mila persone, un negozio ogni nove metri e l’abitudine di nascondere i decessi

Il quartiere dei mille affari dove nessuno muore mai

Milano - I cinesi non scherzano con gli affari. Gli affari, i cinesi, li sanno fare e basta. Qualche mese fa si scoprì che da due anni un signore aveva aperto nientemeno che una banca clandestina, senza autorizzazioni e sportelli legali. Novecento clienti. Tutti cinesi e tutti con un conto che, senza forse, ci piacerebbe fosse il nostro.
No, non è leggenda metropolitana ma storia vera, come autentici sono quei quattrocentomila euro buttati sul bancone di un negozio per novanta metri quadrati. Operazioni immobiliari quotidiane concluse ad appena tre fermate da piazza Duomo e con un comune denominatore: niente assegni, solo cash, contante, e senza nemmeno sedersi per una firma. Va così a Milano. Un intero (o quasi) quartiere è passato di mano, quello del triangolo di via Sarpi, tra via Canova, piazza Gramsci e via Bramante.
Gli italiani che resistono, be’ si sentono come stranieri a casa loro. Miracolo nella Chinatown meneghina, dove la mutazione catastale dà corpo e sostanza ad una comunità di dodicimila persone, che l’aria di Milano rende praticamente immortali. Infatti, dal primo gennaio 2000 ad oggi i cinesi passati a miglior vita sono appena 30 su dodicimila persone, di cui due su cinque vantano una partita Iva.
Qualcosa come cinquemila e più tra ristoranti, pizzerie, negozi di chincaglieria e all’ingrosso che, particolare, sono punto di riferimento per tutto il mondo degli ambulanti meneghini. Lì, a Paolo Sarpi, si riforniscono senegalesi, marocchini, indiani ma pure italiani: «L’invasione della merce a prezzi stracciati è questione di cifre non di pregiudizi», confidano i (pochi) negozianti italiani, che già preannunciano la fuga. Motivo? «L’incasso non brilla, i costi fissi salgono e l’offerta me l’hanno già fatta, anche velata da una minaccia quando ho risposto picche alla seconda proposta». Quale? Silenzio, meglio non parlare.
Finale di conversazione che la dice lunga sul clima delle mediazioni nella Chinatown - dove le minacce arrivano quasi sempre all’ora di chiusura - che un rapporto della Direzione nazionale antimafia definisce «rilevante polo processuale». Già, a dominare la comunità cinese sono tre clan - Daxue, Yu Hu e Donpei -, organizzati sulla base delle località di provenienza. Tre famiglie spesso dietro l’apertura di quei bazar made in China che, dati Camera di Commercio, incassano più di 550 milioni di euro all’anno.
Fatturato niente male, quello prodotto nel cuore di Chinatown dove, dettaglio, le tre famiglie hanno in comune la stessa licenza di un’agenzia immobiliare ma pure, in passato, un’indagine dell’assessorato al Commercio per le richieste di licenze commerciali pro-cinesi presentate esclusivamente con l’appoggio di un commercialista. L’unico di questa storia a non avere gli occhi a mandorla.
Anzi, no: spuntano altri italiani e sono alla guida dei Tir che, una sera dietro l’altra (domenica esclusa) si fermano nel piazzale davanti al cimitero Monumentale, a due passi da via Sarpi e dintorni, e scaricano tonnellate di materiali. Che materiale è? È pericoloso? È regolare? Domandine da un milione di dollari, nessuno ne sa niente e quelle tonnellate in un battibaleno spariscono nella pancia delle cantine di Chinatown.
I vigili urbani? Troppo pochi e spesso sollecitati a girarsi dall’altra parte, mentre strade e marciapiedi del quartiere in mano ai cinesi sono letteralmente invasi da macchine, furgoncini e un viavia frenetico di scatole e di scatolone. È l’invasione degli spazi, del «territorio trasformato in un suk». Esagerazione? No, fotografia dei negozi - uno ogni nove metri dicono le statistiche - trasformati in magazzini stipati fino al soffitto, sconosciuti estintori e uscite di sicurezza.
Una ragnatela che, naturalmente, offre molteplici e opposte letture - quartiere ghetto, isolamento -, ma non certo quella dell’integrazione, che è obiettivo del Comune: si vuole avviare un confronto sereno con la rappresentanza consolare della comunità cinese e con gli altri organismi ufficiali. Un rapporto diretto e senza mediazioni terze o iniziative personali, come quelle dell’attuale vicepresidente del Consiglio comunale Stefano Di Martino, che il vicesindaco Riccardo De Corato ha pubblicamente censurato.

Ma questa è un’altra storia o, forse, è la storia degli italiani che vogliono uscire dal ghetto di Chinatown, a tre fermate da piazza Duomo.

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