I brasiliani dei Balcani. Roba da favola. O da barzelletta. Il calcio jugoslavo è un ricordo antico, maledetto anche per le promesse mai mantenute, per le illusioni facili, per un amore venduto in fretta. La Serbia umiliata e sbattuta via dal mondiale continua farsi prendere a pernacchie anche nelle partite di qualificazione al prossimo europeo. Ha perso contro l’Estonia, dopo essere andata in vantaggio, ha gettato nel cestino dei rifiuti la propria reputazione e la propria storia. Undici calciatori non fanno una squadra, undici musicisti non fanno un’orchestra. E’ cronaca di oggi ma sono pagine di un libro che dura da sempre, un titolo olimpico in tutto è la miseria di una scuola che ha insegnato calcio e altre discipline sportive, di un territorio che con la palla, il pallone, la pallina sa emergere in acqua e sul prato, in palestra e sui campi in terra rossa, un Paese che non esiste più come era prima, ma che anche nel periodo della sua unità titina bruciava il patrimonio accumulato. Sekularac, i fratelli Matosic, Glisovic, Surjak, Dzaijc, Suker, Susic, Savicevic, Boban, Jerkovic, Petrovic, Stojkovic, cito a caso, a memoria, in un arco di tempo che oltrepassa mezzo secolo di football, artisi del dribbling, della giocata imprevedibile, del gol fantastico, anime gitane, egoisti e narcisi del pallone.
Ivica Osim, l’allenatore della nazionale jugoslava forse più forte di sempre, quella del mondiale di Italia ’90, mi disse, sfogandosi (guarda un po’ i vizietti) davanti a una bottiglia di vino piemontese: «Secondo lei come posso far coesistere un cattolico con un ortodosso, uno che scrive cirillico con uno che va ancora con i numeri romani, un croato con un serbo. Guardi, osservi, a volte non si passano nemmeno la palla uno con l’altro». Osim venne fatto fuori, per la e le bottiglie in numero esagerato e per le sue idee di fratellanza.
La Jugoslavia, dopo quel mondiale, andò incontro alla guerra civile; la frantumazione di etnie, di popoli e di club di football non ha cambiato la sua identità tecnica e di comportamento. Il risultato ottenuto dalla Serbia al mondiale e quello ribadito nell’europeo confermano che la scuola continua ad avere scolari indisciplinati, geni incompresi ma, alla fine, comprensibili: Stankovic e Krasic giocano nell’Inter e nella Juventus, dovrebbero essere i trascinatori, i punti di riferimento della nazionale serba, sono anch’essi, sempre, calciatori di strada, leziosi, imprevedibili, capaci di prestazioni da applausi e di prove da bastonate, hanno lo zucchero nei piedi e il pepe in testa.
La Serbia come la Croazia, come il Montenegro, come la Bosnia Erzegovina, la Macedonia, la Slovenia, le nuove, altre realtà di una Nazione che si è sciolta, in ritardo forse, ripensando alle parole di Osim. Un Paese non grandissimo di superficie ma grande di storia e di tradizione sportiva, forse il più fertile, in tal senso, dell’Europa “aperta”. Mentre nelle altre discipline, dalla pallacanestro alla pallavolo, dalla pallanuoto al tennis, sono riusciti a emergere, a conquistare non soltanto rispetto ma anche trofei e titoli, i bauli del calcio restano vuoti, quasi a confermare che quella dei “brasiliani dei Balcani” è una frase bella per la propaganda ma bugiarda per gli almanacchi.
Italia-Serbia diventa, allora, una partita facile o comunque non aspra come dovrebbero dire certi cognomi. Dopo il mondiale sudafricano l’allenatore Radomir Antic si era visto dimezzare il salario e poi ricevere la lettera di licenziamento.
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