Cultura e Spettacoli

In quei casolari ha dipinto l’eternità della bellezza

N o. Non abbiamo più bisogno di parole. Davvero, nessuno ci deve spiegare chi è Sigfrido Bartolini, ma soprattutto nessuno ci deve spiegare chi è lui, ora che siamo noi ad aver bisogno che lui ci spieghi.
Non scriviamo, per una volta, guardiamo le opere. Senza aver bisogno di Carrà, di Soffici, di Masaccio, senza aver bisogno dei maestri di tutti noi, che non possiamo più continuare a chiamare in causa come dei bambini in cerca di modelli.
Sigfrido è un modello, è un maestro. Nel silenzio, nell’opera sua conclusa e ferma, nelle parole che l’accompagnano. Ha creduto, ha dipinto, ha creduto: ha vinto o a perso?
Bartolini faceva case, casolari, campagne, mezzogiorni, aspettando il momento di dire basta. Case luminose eterne e abbandonate nella luce meridiana di Nietzsche, case trovate e perdute nei mezzogiorni toscani del trionfo della luce e dell’abbandono dell’uomo. Carrà e Soffici, suoi maestri, ce le spiegano fino a un certo punto. Fino al punto in cui c’è lui. Solo, col suo taccuino, col suo cavalletto. Con la sua speranza e il suo ardore.
La bellezza era troppo anche per lui. Come fosse lo zaino di un soldato. Ma neppure lei lo convinceva. La bellezza se ne va, da sola. Siamo noi ad aver bisogno di lei, non lei di noi. Uno zaino troppo pesante, troppo per un uomo solo. Lo sfidava, lo seduceva, col suo bisogno eterno di farsi spiegare. E Sigfrido, con quel nome destino, e quel compito, se lo affardellava addosso, sapendo che era troppo. Per questo siamo ancora qui a chiederci che cosa ha fatto e perché.
Perché anche noi vorremmo fissare la bellezza che ci sfugge, a maggior ragione se appartiene a un panorama che ci si sfigura tra le mani, e ancora di più se vogliamo che questa bellezza abbia un significato.
Il Novecento era finito, morto, sepolto, consacrato, concluso. Non per lui, che sconcertava i paesaggi attraversati da Masaccio e da Piero e da Soffici e da Modigliani e da Carrà e da Tosi, e da Sironi, tutti a chiedere ai quei poveri paesaggi con quelle povere case abbandonate che cosa volessero dire. Non volevano dire niente, ma gli chiedevano ancora di illuminarsi con la luce pazza e siderale e di luna col ghiaccio, gli chiedevano di parlargli.
E Bartolini tagliava e ritagliava le sagome dure dei ruderi, con le finestre disegnate come quelle di Masaccio, una per una, inutilmente, e le crepe, e gli squadri e i sottosquadri, e i rialzi, Sigfrido tagliava, come un carpentiere, per disegnare il mondo. Questo volevano tutti, disegnare il mondo per dirlo. Poi il mondo ha smesso di ascoltare, perché ascolta altri suoni. Ma quel che Sigfrido ha inciso disegnato e dipinto, resta.
Resta la solitudine addomesticata delle sue case solitarie e abbandonate, che esistono solo perché lui le ha dipinte, e lui esisteva per dipingerle. Sono belle, squadrate, hanno addosso un destino, il destino che lui voleva avessero. Magari oggi sono mucchi di pietre, e allora il compito si spiega, ci spiega, si svela. Cerchiamo l’eternità in quel che passa e sappiamo che deve passare. Ma sentiamo il dovere, il compito sovrumano di renderlo eterno.
Sigfrido Bartolini affidava a un Journal le sue meditazioni. Restituire la bellezza a quell'ineffabile dio che l'ha creata e subito abbandonata.
Questo fa Sigfrido. Sconfitto prima, e dopo. Perché sapeva di combattere un nemico più grande di lui. Non solo il secolo, non solo le avanguardie che derideva da scrittore, ma tutto era troppo grande. La sconfitta la contemplava e la disegnava, col silenzio, la solitudine, la infinita resa delle sue luci meridiane, i suoi mezzogiorni desolati e invitti a un tempo.
Come il vecchio Cézanne che interrogava lo stesso paesaggio, che restava sordo e muto alle sue richieste, il «vecchio cane» che diceva Rilke, che «s’inventava la bellezza» delle mele aggiustate sulla tovaglia.
Sigfrido Bartolini resta e resterà perché il suo desiderio è il nostro. Il suo errore è il nostro. Solo che lui lo dipinge e lo pensa. Noi lo desideriamo e basta. E allora smettiamola di scrivere. È più semplice guardare. E arrendersi. Quel che la pittura voleva, Bartolini lo sa, lo fa. Quel che la pittura voleva e lì.

Ci basti guardare.

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