Politica

Quei giudici che sbagliano e non pagano

In 25 anni solo quattro sono stati radiati. Nell’ipotesi peggiore vengono trasferiti, la maggior parte però viene promossa

da Milano

Ammonimento, censura, perdita di anzianità, trasferimento d’ufficio e radiazione. Ma quanti giudici sono stati rimossi dall’ordine giudiziario dopo aver sbagliato? Negli ultimi 25 anni, i casi in cui il Csm ha deciso di cacciare definitivamente qualche magistrato sono stati quattro. Meno delle dita di una mano.
C’è anche chi, come Pietro Lisa, magistrato di Nuoro, era stato condannato alla radiazione. Poi però, con Carlo Azeglio Ciampi presidente delle sezioni disciplinari del Csm durante il mandato al Quirinale, la pena gli fu ridotta alla perdita di 2 anni di anzianità.
Insomma, venire cacciati dalla magistratura è tanto raro quanto difficile. Bisogna, come Aldo Cuva, ex procuratore di Tortona, aver commesso irregolarità nell’inchiesta sulla morte di una donna uccisa da un sasso lanciato da un cavalcavia. Bisogna aver compromesso il prestigio dell’ordinamento giudiziario, come Gugliemo Caristo, consigliere della Corte d’appello di Firenze ed ex giudice del Tribunale di sorveglianza di Roma.
O magari bisogna accumulare gravi ritardi nel deposito di oltre un centinaio di sentenze (139 per la precisione), come successo al giudice Domenico Ancona del tribunale di Bari. A volte basta che la sentenza sia solo una, se ti chiami Edi Pinatto e per depositare le motivazioni hai impiegato otto anni, facendo sì che diversi componenti del clan Madonia venissero scarcerati. Per gli altri giudici passati sotto le «forche caudine» del Csm, le cose sono andate molto meglio. Certo, poi ci sono le altre condanne: gli ammonimenti, per esempio, abbondano. «E sul curriculum di un magistrato hanno un loro peso - ha detto al Giornale Michele Saponara, vicepresidente della sezione disciplinare del Csm -. Ma bisognerebbe pensare a qualche riforma delle commissioni giudicanti, per creare un organismo più esterno, meno vicino all’ambiente dell’accusato».
Per alcuni è valso addirittura il motto latino promoveatur ut amoveatur. Promossi per essere rimossi. O tutt’al più, trasferiti. Come accadde a Alessandro Chionna, il pm che più di dieci anni fa chiese e ottenne gli arresti per Gigi Sabani, colpevole - a suo dire - di aver organizzato provini a luci rosse. Chionna, a Sabani, non rubò solo qualche anno, ma anche la fidanzata, Anita Ceccariglia. Che però, essendo la teste principale dell’accusa, gli costò un esplicito invito a lasciare l’inchiesta del procuratore di Biella. Per il presentatore, la faccenda si risolse con l’archiviazione. Per Chionna, accusato proprio da Sabani d’abuso d’ufficio, il Csm decise il trasferimento. Secondo la logica dell’«hai abusato qui, è meglio che tu vada a lavorare da un’altra parte». Ma almeno, quando si trattò di discutere la sua promozione da giudice di Busto Arsizio a magistrato d’appello, il Csm ebbe il buon gusto di dire no.
Ad altri è andata meglio. Come per esempio ai pm che fecero condannare Enzo Tortora. Erano in due: Lucio Di Pietro e Felice Di Persia. Assieme, partendo da un’agendina con un numero di telefono, arrivarono a una condanna a dieci anni per il presentatore. Che venne assolto in appello e pure in Cassazione. Di Pietro oggi è vice procuratore nazionale antimafia. Di Persia è andato in pensione, ma fino al 2005 è stato procuratore aggiunto a Napoli con delega all’antimafia.
Un altro caso entrato negli annali è quello di Pietro Calogero: nel 1979 da Pm fece arrestare Toni Negri, Emilio Vesce, Pino Nicotri, Luciano Ferrari Bravo e Oreste Scalzone, il gotha di Autonomia operaia. Sulle loro spalle venne appoggiato tutto il fardello del delitto Moro, salvo, dopo mesi di carcere, venire assolti o condannati per reati meno gravi che nulla avevano a che fare con quelle accuse. Oggi, Pietro Calogero fa il procuratore della Repubblica, proprio a Padova.

Insomma, qualunque cosa possa dire Marco Travaglio sull’Unità, che i giudici paghino è tutto da verificare.

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