Quei milanesissimi anni ’60

G li anni Sessanta compiono cinquant'anni: non è un gioco di parole ma l'occasione per celebrare un decennio in cui Milano fu uno straordinario laboratorio di idee cui guardavano con curiosità l'Italia e l'Europa. Prendiamo la letteratura: Salvatore Quasimodo, premio Nobel nel '59, così come Eugenio Montale, Nobel nel '75, erano di stanza a Milano.
All'ombra della Madonnina nacque il «mitico» Gruppo '63. Nell'editoria c'erano «giganti» come Bompiani, Mondadori, Garzanti, Feltrinelli. La musica? I melomani concordano che gli anni Sessanta segnarono la migliore produzione della Scala (nei cartelloni dell'epoca Maria Callas e l'eleganza di Carla Fracci). Sul fronte della musica leggera arrivò la «rivoluzione» musicale dei Gufi. E poi «l'urlatrice» Mina, che nel '59 spopolava al Palazzetto del Ghiaccio prima di entrare nel mito. Sono gli anni dei primi successi rock di Celentano, e persino i cosiddetti cantautori liguri (Gino Paoli e De André su tutti) erano in fondo milanesissimi, ché si ritrovano sempre da Ricordi per incidere i loro ellepi.
Se la moda vedeva muovere i primi passi di Valentino, Fiorucci e Krizia, la stagione dell'arte è da manuale: con Piero Manzoni (ricordato purtroppo più per le sue «merde d'artista» che per la capacità di sperimentare), Enrico Castellani, Lucio Fontana. C'era la fotografia di Ugo Mulas e poi quella di Bob Krieger. C'erano il nuovo teatro di Giorgio Strehler e di Franco Parenti. Ci fermiamo qui: ma potremmo continuare con la tv (un nome su tutti: Mike Bongiorno), il calcio (Mazzola e Rivera), il giornalismo (Biagi, Montanelli). Una stagione di campioni, in tutti i campi. «Si respirava una densità creativa paragonabile a quella di Vienna a inizio del Novecento o a Firenze nel Duecento», commenta Luciano Tellaroli che ha deciso, insieme al Circolo Filologico Milanese, di ideare un ciclo di incontri per festeggiare i cinquant'anni degli anni Sessanta.
«Un modo per non dimenticare una stagione vivace in tutte le discipline e per guardare al futuro. Siamo tutti figli di quel periodo e, anche in vista dell'Expo 2015, sarebbe bello che Milano tornasse al centro della scena culturale come lo fu cinquant'anni fa», continua Tellaroli.
Il pullulare di talenti in settori così variegati che, prima della grigia stagione di piombo, fece di Milano la locomotiva (morale e materiale) del Paese fu una mera coincidenza? «Esisteva allora una facilità comunicativa e un fermento che di certo sono da ricondursi all'energia vitale del Dopoguerra. Influirono l'operosità meneghina, un mecenatismo consapevole e una certa finanza illuminata, come quella di Giordano Dell'Amore, allora presidente della Cariplo, che sostenne l'edilizia a Milano favorendo l'immigrazione dal Sud e quindi nutrendo la città di nuovi abitanti e nuove idee. Ma non basta questo a spiegare un decennio come gli anni Sessanta», spiega Tellaroli.
La Milano dell'epoca camminava per strada, amava le osterie, i ristoranti, i bar (come il Jamaica), si ritrovava in Galleria, dove un tempo c'era la Libreria Einaudi, moltiplicava i luoghi di ritrovo, li apriva a tutti.

«Continuò così fino al '66 e al '67 - conclude Tellaroli - poi la città, per paura, cominciò a chiudersi in se stessa: anche gli artisti persero il gusto della comunità e della condivisione, preferendo ritrovarsi in circoli esclusivi, spesso di difficile accesso».
Milano assiste sconsolata al cambiamento: la leggerezza e l'innocenza degli anni Sessanta lasciano il posto alle ideologie degli anni Settanta, e fu tutta un'altra storia.

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