C’è un paradosso riguardo la questione meridionale. Anzi, per essere più chiari, riguardo ai quattrini che da cinquanta anni copiosamente sono destinati a quest’area del Paese. Il paradosso è che ciclicamente i politici del Sud chiedono risorse per fare ciò che non è stato fatto, nonostante i finanziamenti ricevuti, da loro stessi. E giustificano le richieste in virtù dei deficit strutturali dell’area in cui vengono eletti. A questo paradosso se ne aggiunge un altro, che potremmo definire la sindrome Bassolino. Nonostante lo sfascio delle sue amministrazioni, dai rifiuti alla sanità, ha stravinto tre campagne elettorali. Più o meno simile il meccanismo per il quale il governo è stato costretto a nominare commissari della sanità quei politici, che in altra veste, hanno contribuito a indebitarla. È ragionevole dunque il tentativo di rendere diverso il meccanismo di elargizioni. Probabilmente anche Heidi si sarebbe resa conto che continuare a pagare a piè di lista non avrebbe portato ad alcun beneficio.
Ciò non vuol dire negare la questione meridionale. L’incapacità delle amministrazioni di gestire i quattrini pubblici non è una prerogativa della politica meridionale, anche se questa può vantare un certo grado di specializzazione. Il punto è che si deve individuare un meccanismo per saltare un passaggio. Si deve cercare il modo per «disintermediare» la politica il più possibile dall’erogazione dei fondi pubblici. Si deve mettere in grado l’impresa del Sud, i professionisti del Sud e i cittadini delle cinque regioni meno sviluppate, di trarre beneficio dai quattrini pubblici senza dover bussare alla porta degli enti locali. Facciamo un esempio, così da non far commercio con principi troppo alti. Un’azienda la si può aiutare con risorse contrattate con la burocrazia pubblica: dalle finanziarie regionali alle pratiche di aiuto pubblico. Oppure si può studiare un meccanismo automatico. Buttiamo là una proposta, onerosa per le casse pubbliche, ma che dà il senso di ciò che intendiamo. Si stabilisca che l’assurda Irap (una tassa che si paga sul lavoro anche se l’azienda è in perdita) non si paghi al Sud. O si riduca l’aliquota, come peraltro oggi avviene per il settore agricolo. Insomma si dia una mano direttamente alla bottega e non si obblighi l’imprenditore alla relazione con la politica.
Si deve inoltre scongiurare un nuovo rischio: aprire nuovi fronti di rivendicazione laddove la crisi oggi morde maggiormente. E cioè nelle aree più produttive del Paese. Il nostro sistema di welfare prevede degli stabilizzatori più o meno automatici, che hanno una forza maggiore proprio al Nord. La cassa integrazione integra il reddito evidentemente dove fino a ieri si è prodotto. Ma non basta. Ci sono degli interventi che la politica deve velocemente mettere in campo per non perdere il Nord. Due casi tra i tanti. L’abbandono di Malpensa (indipendentemente dalla sua ragionevolezza industriale per Alitalia) mette in discussione una delle più grandi aziende lombarde (la Sea) che ha tre volte gli occupati della fabbrica Fiat di Termini Imerese. Non si tratta, in questo caso, di trovare forme di aiuto pubblico, basterebbe che il governo si affrettasse a liberalizzare completamente le tratte aeree, per permettere alle compagnie estere di alimentare lo scalo varesino. E ancora. Gli studi di settore.
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