Quei re cristiani che fecero l’impresa di diventare santi

La mostra romana Il potere e la grazia dovrebbe farci morire di nostalgia. Nostalgia del tempo in cui re e regine erano santi, il peccato aveva davvero gusto e la vita gli attributi. Tra le immagini esposte c’è quella di s. Olaf di Norvegia, detto il Legislatore perché civilizzò il suo Paese cristianizzandolo. Olaf Haraldsson il Voluminoso era un pirata vikingo, di quelli che terrorizzavano l’Europa. Aveva conosciuto il cristianesimo a furia di scorrerie nei monasteri inglesi. Nel 1015 dovette tornare in Norvegia per combattere contro l’usurpatore Haakon. Fece una scommessa col fratello Harald, una gara di drakkar. La sua nave era più lenta, ma vinse la gara a chi tornava in patria per primo: Harald aveva invocato Thor, mentre Olaf si era rivolto al Dio di cui aveva sentito parlare, Cristo. Olaf morì in battaglia nel 1030 contro i danesi. La storia della sua conversione è emblematica. Per tre secoli l’Europa aveva dovuto difendersi dai vikinghi a Nord, dai magiari a Est e dai saraceni a Sud. I primi due popoli furono cristianizzati (ai magiari pensò s. Stefano, re d’Ungheria) e gli altri divennero l’antemurale d’Europa contro i turchi. I primi avrebbero potuto abbracciare l’islam, con cui erano in contatto da tempo: una religione guerriera e, dunque, più consona al loro temperamento. Invece diventarono cristiani. E, coi nomi di normanni (Francia settentrionale) e variaghi (Rus’), liberarono dai musulmani il meridione italico e costituirono la guardia scelta dell’imperatore bizantino, la Roma orientale che per secoli tenne a bada l’aggressività islamica.
Alla lotta contro l’islam il più puro dei re santi, Luigi IX di Francia, condusse ben due crociate. E un altro re santo, Ferdinando III di Castiglia, spese l’intera vita. Fu quest’ultimo a riportare al santuario di Compostella le campane che il califfo Al-Mansur aveva depredato. Già, Santiago, quel s. Giacomo il cui nome urlavano le armate spagnole in battaglia. Apparve armato e splendente agli uomini di Pizarro accerchiati a Cuzco da migliaia di Incas: questi ultimi lo presero per Viracocha, il dio del tuono, e, sconcertati dal fatto che proteggesse i conquistadores, fuggirono.
Ed eccoci in America, scoperta dagli europei (ed evangelizzata dalla Spagna) perché Colombo cercava una nuova via per le spezie, essendo la vecchia bloccata dalla tenaglia islamica. Da poco era caduta Costantinopoli (1453) e tre anni dopo i turchi erano a Belgrado, dove furono fermati da un altro santo, Giovanni da Capestrano. Callisto III istituì, in memoria, la festa della Trasfigurazione, per la gioia che aveva illuminato il volto dell’Europa. Già, l’Europa. Che nacque a Poitiers, ancora contro l’islam. Là i franchi di Carlo Martello vennero per la prima volta chiamati «europei». Non è possibile distinguere tra Europa e cristianesimo. I popoli d’Europa non solo hanno un santo come fondatore, ma spesso anche come eroe nazionale: s. Nuno Alvarez Pereira in Portogallo, s. Nicola di Flüe in Svizzera, s. Giovanna d’Arco in Francia, per dirne alcuni. Sono sei i patroni d’Europa e settanta quelli dell’Europa delle nazioni, che la mostra mette in fila.


Oggi si disputa sulle nostre «radici cristiane» e bene fa Ravasi, nel saggio che accompagna il catalogo della mostra, a citare uno dei massimi poeti del Novecento, Eliot: «Un cittadino europeo può non credere che il cristianesimo sia vero e tuttavia quel che dice e fa scaturisce dalla cultura cristiana di cui è erede. Senza il cristianesimo non ci sarebbe stato neppure un Voltaire o un Nietzsche. Se il cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura, se ne va il nostro stesso volto».

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