Quel canto primitivo si libra tra sacro e profano

È la tradizione che, almeno nella musica, non passa mai di moda e non viene tacciata di bieco conservatorismo. Quella del canto a cappella, che viene dai richiami modulati nelle piantagioni del Mississippi, dallo spiritual e dal gospel ma anche dalla cosiddetta «barbershop music» (canto armonizzato per quattro voci) degli anni ’40 e dal doo wop nato a New York e nelle città americane del Nordest. I ragazzini neri, dalle campagne del sud agli slum urbani, non avevano soldi per gli strumenti, così tasformarono le voci in strumenti, con un canto sillabico e spesso onomatopeico appunto definito «doo woop». Dal gospel del Reverendo A.J. Franklin alla fervente vocalità dei primi Staples Singers; dalle Boswell Sisters ai Mills Brothers (pilastri di questo stile, anche se spesso accompagnati dalla musica) passando per i grandi successi degli anni Cinquanta degli Spaniels, dei Del Vikings, degli Hilltoppers fino alle recenti evoluzioni dei Manhattan Transfer, l’elenco di chi ha lasciato il segno sarebbe infinito. Furono soprattutto le Boswell e i Mills a liberare le armonie dal formalismo dei gruppi «barbershop» e a rinnovare lo stile vocale arricchendolo di swing e improvvisazione. Impagabili i bozzetti dei Mills con la voce di Harry Mills a fare la tromba, quella di Herbert nel ruolo del sassofono, il profondo basso di John Jr a fare la tuba e il poderoso tenore di Donald. Col loro gusto e la loro teatralità spopolarono in ambito jazz, pop, novelty, vaudeville e cantarono con la band di Duke Ellington e Louis Armstrong.

I nomi da citare sarebbero centinaia, dai Mystics ai Penguins a quelli che sfondarono nelle classifiche nel ’51 come i Larks, i Swallow, i Cardinals. Ma il genere a cappella, fortunatamente, trova oggi nuovi epigoni anche in Italia; persino in tv, a X Factor, stanno emergendo due gruppi dalla notevole personalità come l’Aram Quartet e i SeiOttavi.

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