Quel dritto dell’autore che azzeccò il garbuglio

Fosse stato per lui, avrebbe fatto fallire l’editore. Era nero di rabbia perché Felice Le Monnier, stampatore fiorentino, aveva pubblicato nel 1845 la sua storia senza chiedergli l’autorizzazione. Lo chiamò perciò in giudizio come un malfattore, esigendo un duro risarcimento. Ebbe così inizio un clamoroso processo in materia di diritti d’autore, tuttora oggetto di studio nelle università.
I primi due gradi di giudizio, entrambi svolti nel capoluogo toscano e durati complessivamente 14 anni, furono favorevoli al Nostro. Ma Le Monnier non si dette per vinto e adì la Cassazione di Firenze (prima dell’Unità, ogni Stato ne aveva una). Lo scontro finale, avvenuto nel 1862, ricapitolò l’intera vicenda.
Davanti ai supremi giudici, Le Monnier ribadì di essersi limitato a dare alle stampe la prima versione della nota saga dell’illustre autore. Un testo che, risalendo agli anni ’20, era ormai «caduto in pubblico dominio». Ergo, osservò, nessuna violazione del diritto d’autore, la cui tutela - nata con la Convenzione del 1840 - non poteva ricomprendere uno scritto antecedente a quella data. A meno di non applicare una retroattività contraria ai principi del diritto. Aggiunse che, proprio per rispetto della legge, si era ben guardato dal pubblicare l’ultima versione del libro. Quella, cioè, che il suo autore aveva riscritto da capo a piedi e stampato a proprie spese in una lussuosa veste illustrata. Edizione, questa, datata 1843 e dunque, essa sì - ma solo lei - protetta dalla Convenzione di tre anni prima.
Le Monnier, uno sveglio francese trapiantato nel Granducato, fece anche un po’ di teatro, nel corso dell’udienza. Si disse addolorato per l’attacco giudiziario di quel grand’uomo che era il Nostro, protestò la sua totale buona fede e aggiunse che aveva pubblicato l’opera in omaggio all’autore. «Come avrebbe potuto nella mia Biblioteca nazionale italiana mancare il suo immortale racconto?», disse, cercando di accattivarsi tanto i giudici quanto l’implacabile persecutore. Ad abundantiam, spiegò che la sua edizione a poco prezzo della prima versione aveva fatto conoscere il racconto ai giovani che mai avrebbero potuto permettersi l’edizione riveduta. E con questo tocco di fioretto dette un’elegante stilettata al Nostro che aveva pubblicato l’edizione definitiva in veste costosa dimentico - lui noto baciapile - delle esigenze dei meno abbienti.
Ma l’affondo di Le Monnier fu affidato al suo difensore, il prof. avv. Girolamo Boccardo del Foro di Genova. L’abile giurista, pur avviluppando la sua arringa di zuccherosi omaggi, trattò l’autore da volpone, interessato più al denaro che all’arte. Insinuò infatti che avesse riscritto negli anni ’40 la vecchia storia degli anni ’20 non già per esigenze letterarie, ma per rientrare nella tutela della Convenzione del ’40 e pretendere i diritti d’autore.
Entrata in vigore la legge del 1840 - scrive beffardo il legale - l’autore dal «genio immortale crede di accorgersi che il suo libro ha mille difetti di lingua, sebbene l’Italia, rispettando quella del venerando scrittore, porti ben diversa opinione. Egli fa una nuova edizione, in cui agli originali lombardismi sostituisce forme e modi raccolti» altrove... Ma «Le Monnier, consapevole che l’Italia continua a considerare un tesoro quel primitivo che l’Autore ripudia, ne esegue una ristampa» non autorizzata. E che male c’è? conclude, giacché la sola versione tutelata è l’ultima e non quella lombardeggiante, non potendo la legge essere retroattiva.
Il Nostro, un diavolo per capello, replicò: «La retroattività non c’entra. La legge non proibisce fatti passati ma le nuove ristampe, cioè eventi attuali. Tra colpire dei fatti consumati e il proibire fatti possibili, c’è assoluta diversità». Giurista improvvisato, lo scrittore aveva però colto il punto. La Cassazione, confermando i precedenti giudizi, condannò Le Monnier a risarcire l’autore. Il Nostro pretendeva 150mila lire di danni. Dopo mesi di tira e molla, cipigli e brutti musi, i contendenti si accordarono per 34mila lire.
La somma, rilevante, si aggiunse al patrimonio già cospicuo del nobiluomo.

Conte per parte di padre (putativo), marchese per parte di nonno, figlio naturale di un primo amante della madre ed erede universale di un secondo amante della medesima, il Nostro ebbe onori, ma altrettante pene. Fu vedovo due volte e sette dei suoi nove figli gli premorirono. L’ultimo venti giorni prima che, per il dolore, morisse anche lui ottantottenne.
Chi era?

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