da Roma
«Volevamo Borat. Avremo Borat. Grazie Veltroni». La manchette colorata sulla prima pagina del Foglio, invero un po ridicola, gli addetti ai lavori se la ricordano bene. Fu il prologo di una campagna mediatica senza precedenti, ben condotta per carità, costruendo levento con cura, a colpi di inserti, tormentoni, corrispondenze americane, interventi mirati. Per il giornale corsaro diretto da Giuliano Ferrara, Borat, finto documentario satirico pensato e recitato dal comico ebreo/inglese Sacha Baron Cohen (in gergo il genere viene detto mockumentary), era lunico, vero evento dell'ottobrina Festa romana. In effetti finì con essere tale, benché Cohen, impegnato nel lancio americano, si guardò bene dall'accompagnare la sua creatura, che pareva destinata, anche in Italia, a fare sfracelli al botteghino.
Invece no. Uscito da noi in centinaia di copie il 2 marzo, dopo un ulteriore battage pubblicitario pilotato dalla 20th Century Fox per far meglio familiarizzare il personaggio eponimo col pubblico giovane, Borat non ha replicato il miracolo statunitense, inglese o tedesco. E non diamo la colpa al doppiaggio (credibile) di Pino Insegno. Lesordio fu da exploit, con 2.3 milioni di euro, ma alla terza settimana, vittima del passaparola negativo alla faccia dei cultori in deliquio, scivolò in tredicesima posizione. Un altro week-end e scomparve, totalizzando in tutto meno di 6 milioni di euro. Accettabile per un filmetto costato appena 18 milioni di dollari, ma niente in confronto ai 128 milioni di dollari incassati sul mercato nord-americano o ai 24 milioni di sterline racimolati nel Regno unito. Ricordate? Doveva essere «il film che riporta le ambulanze fuori dal cinema», per via delle risate a crepapelle: non è andata così. «Puttanata tremenda» o «botta di genio», a seconda dei punti di vista, lo stracult boratiano ha lasciato freddino il pubblico italiano, e forse non è un caso che qualcosa del genere sia successo anche in Spagna, altro paese latino. Evidentemente Borat Sagdiyev, l'immaginario telegiornalista kazako spedito negli Usa per un servizio sull'american way of life (indossa un abito grigio-sovietico, scarpe di cuoio intrecciato, baffoni, occhiali Ray-Ban, soprattutto una specie di sospensorio verde pisello, con bretellone, a forma di tanga sul didietro, chiamato crotch sling), alla fine ha accusato qualche défaillance nell'universo globalizzato di Mtv. Sarà stato pure «dissacrante», «ironico», «scorretto», «demenziale», «impertinente», «sulfureo», a partire dal sottotitolo beffardo «Studio culturale sull'America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan»; e però questo villico reporter cresciuto secondo la cosiddetta gerarchia kazaka «Dio, uomo, cavallo, cane, donna, topo», quindi detestando ebrei, zingari e gay, e pacificamente dedito allo stupro, ha dato l'impressione di fermarsi alla superficie del cosiddetto Sogno americano, sfottendolo sì, ma guardandosi bene poi dal mettere in ridicolo l'universo culturale arabo o mostrandosi cauto con quello dei neri. Più facile masturbarsi davanti alla vetrina di Victoria's Secret, cadere in trance a un raduno di Pentecostali, augurarsi che «Bush possa bere il sangue di ogni donna, uomo o bambino dell'Irak», gettarsi sul «politicamente scurrile» con un ciccione nudo, rileggere l'inno americano in chiave kazaka a un rodeo e palpitare per le forme siliconate di Pamela Anderson.
Nella categoria «politically uncorrect», francamente era meglio Tutti pazzi per Mary, più oltraggioso e spassoso. Adesso, vedrete, ci diranno che il cofanetto con libro e doppio dvd mostrerà extra gustosi, perle tagliate al montaggio per evitare guai, e di nuovo l'ebreo ortodosso Sacha Baron Cohen, laureato a Cambridge, con moglie convertitasi all'ebraismo, farà riparlare di sé, magari annunciando un seguito.
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