Quel killer spietato di nome amianto

Quel killer spietato di nome amianto

«Investire in bonifiche e sostegno alla ricerca medico-scientifica. Alleviare le sofferenze di chi è già malato e di chi potrebbe diventarlo. Trasformare un'emergenza sociosanitaria in opportunità di sviluppo e lavoro per i giovani». È quanto auspica Nicola Pondrano, presidente del Fondo vittime dell'amianto, istituito presso l'Inail nel 2008. Il Fva ha disponibilità annua di circa 30 milioni, costituita per tre quarti dallo Stato e per il restante quarto dalle imprese. Della dotazione possono beneficiare solo le persone colpite da patologie amianto-correlate - o i loro superstiti - per le quali sia stato confermato il nesso causale tra la malattia e il lavoro. È un limite che si spiega con la sua natura di emanazione dell'Inail. Ma l'impatto devastante dell'amianto, ampiamente utilizzato per tutto il secolo scorso, è un'emergenza sociale molto più ampia.
A far esplodere pubblicamente il caso è stato l'elevato numero di morti verificatisi tra gli ex lavoratori della Eternit di Casale Monferrato. Un'azienda che ha prodotto lastre e tubi in cemento-amianto dai primi anni del secolo scorso fino a metà degli anni Ottanta. «Un'industria - racconta Pondrano, che lì fu assunto nel 1974 - che per oltre 70 anni non ha modificato i propri processi di produzione e ha offerto occasioni di lavoro alternativo - o meglio complementare - a quello agricolo a migliaia di famiglie, tra dipendenti diretti e indotto».
In realtà, che le fibre di amianto potessero provocare gravi patologie polmonari si sospettava già da qualche decennio. «Ma negli anni della ricostruzione post-bellica e del boom economico - ricorda Pondrano - non si è sviluppata una vera coscienza, al punto che con l'amianto non si costruivano solo tettoie o tubi, ma anche freni per auto, tavoli per orafi, comodini da ospedale. Così, in quegli anni si sono ammalati migliaia di lavoratori e altrettanti loro familiari, comprese mogli e figlie che maneggiavano le tute portate a casa da lavare». E a distanza di 30-40 anni dalla fine delle lavorazioni con l'amianto, i decessi continuano a verificarsi, perché tali sono i tempi di incubazione del mesotelioma pleurico, che con l'asbestosi polmonare è l'altra patologia più direttamente collegata all'esposizione a questa sostanza. Una forma tumorale che, una volta conclamata, lascia mediamente pochi mesi di vita.
Purtroppo - anche se è più difficile dimostrare il nesso eziologico come nel caso di chi ha lavorato con l'amianto - questa sostanza può causare il mesotelioma pleurico a chiunque ne sia stato esposto. Le sue fibre hanno potuto, e continuano disperdersi, nell'mbiente a causa dell'usura: caso tipico l'effetto delle piogge acide. «In Italia - sottolinea Pondrano, che è stato anche tra i fondatori dell'Associazione familiari vittime dell'amianto (Afeva), Onlus attiva nella sensibilizzazione e nel sostegno alla ricerca - vi sono ancora tantissimi siti contaminati. Si parla anche di 40-50mila».

Per questo motivo, la guardia va alzata, sia con le mappature e le bonifiche, sia con la ricerca di tecniche diagnostiche e terapeutiche innovative contro il mesotelioma pleurico.

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