«Quel liceo, in fondo, non era così speciale»

«Quel liceo, in fondo, non era così speciale»

di Marina Mascetti

Caro Lussana, viste le lettere che ha ricevuto dopo la mia, pensavo di fondare un club di «Sopravvissuti e reduci del Liceo D'Oria». Le lettere di disapprovazione scritte dagli ex-alunni poi diventati professori (Sirianni, Bressani) non sono certamente un caso: si sono sentiti punti sul vivo. Il loro metodo d'insegnamento è simboleggiato dal bellissimo film L'Attimo Fuggente, nel quale gli studenti venivano privati del professore che li faceva sognare per tornare ai vecchi metodi con le poesie misurate «a metro» (e le bacchettate). Fatte le debite proporzioni, sono come il restauratore dell'ordine costituito del film: antiquati e fuori della realtà. Si perdono in un amarcord nostalgico datato ante '68 (e si vede). Sono le «teste d'uovo» che - come ha scritto Mario Lauro - hanno portato Genova alla rovina. Per me le questioni sono due: il metodo di insegnamento e il significato degli studi classici al giorno d'oggi. Metodo di insegnamento: cominciamo col mitico prof. Durand, esaltato dalla signora Bressani. Una mia carissima amica lo ha avuto al ginnasio (anni '70) e lo ricorda come un integralista cattolico, antidivorzista feroce. La sua fissazione principale era la «decadenza morale dei nostri tempi». Le racconto alcune «storie d'ordinaria follia d'oriana» che spaziano dalla fine degli anni '60 fino ai giorni nostri. Un mio amico che portava l'apparecchio dei denti prese tre in greco dalla prof. Vielmetti perché leggendo lo pronunciava male; poi scappò al Colombo, dove il professor Paduano gli insegnò la bellezza della cultura greca e latina. Alma Banchelli, prof. di matematica alle medie del D'Oria, diede a mio marito una nota, accusandolo di usare la famigerata penna biro, mentre lui aveva calcato troppo con la stilografica d'ordinanza. La mia compagna di banco rimediò un bel quattro in Storia, perché sapeva tutto di Carlo Magno ma ignorava il nome del suo biografo ufficiale (il famosissimo Eginardo!!!). Dopo una provvidenziale bocciatura, fuggimmo al Bernini, dove di colpo diventammo le prime della classe. Il mio prof. di storia e filosofia, Giancarlo Massola (quello di Eginardo), era attivissimo nel distribuire il libretto rosso di Mao agli studenti.
Di queste vessazioni era fatta la mitica «severità» del D'Oria, quella che dovrebbe «preparare alle difficoltà della vita»... Mettetevi nei panni dei ragazzi: sono ingiustizie che bruciano, che spazzano via gli ideali e le illusioni, per questo le ricordiamo ancora a distanza di anni. La severità ci vuole, ma non questa. Vorrei riportare una piccola statistica molto significativa: in prima liceo, sezione G, anni '70 eravamo 36 alunni. Solo quattro di noi ebbero tutte le sufficienze in pagella (io no). Se solo uno studente su nove ha tutte le sufficienze, significa semplicemente che il metodo di insegnamento è sbagliato. Il professore deve sapere insegnare, e io personalmente non ho mai studiato volentieri per quelli che non stimavo. Spezziamo una lancia per i professori «bravi» del D'Oria, perché anch'io ne ho avuti alcuni. La prof. Riccobono, mia prof. di Lettere in quinta Ginnasio, mi ha insegnato a scrivere e ancor oggi ricordo ed uso le sue «norme redazionali» contro i francesismi. Il prof. Di Meglio mi diede sempre ottimi voti in italiano, era un uomo simpatico, preparato e moderno. La prof. Silvani in quarta ginnasio era molto materna, ma diede quattro al mio tema femminista in cui - da tredicenne che nulla sapeva dell'amore - sostenevo che Didone «non doveva fare tante scene, perché in fin dei conti Enea le aveva detto chiaro che sarebbe partito» (reazione alla noia delle sue lezioni su Virgilio). Una mia amica ricorda invece il prof. Migliucci, che si spendeva con grandissima passione nell'insegnamento, educava e formava i ragazzi, apriva loro la mente. Con affetto ricordo il prof. Calero che insegnava storia dell'Arte nell'indifferenza generale, anziano e piccolino, col vestito gessato blu: era sgomento davanti all'«arte moderna». A differenza di Sirianni e Bressani, io non posso vantare compagni di scuola dai nomi altisonanti, destinati a luminose carriere nell'establishment cittadino; nel '68 li chiamavano i «figli di papà». In un'epoca in cui le ragazze «di buona famiglia borghese» studiavano solo dalle Dorotee o dalle Marcelline, i genitori (miei e della mia compagna di banco) scelsero di mandarci alla scuola pubblica perché conoscessimo la realtà della vita e non diventassimo «ragazze da marito» come si usava una volta. In realtà noi due ci ritrovammo ad essere quasi delle fuori casta, e una componente della nostra bocciatura settembrina (dopo la rituale rimandatura in tre materie) fu anche «politica» da parte del prof. maoista. Le due schifose borghesi andavano eliminate!
Il D'Oria di oggi. Il mitico Liceo D'Oria di cui parlano Sirianni, Bressani e Pecorini non esisteva più negli anni '70, quando cessò di essere la scuola di élite della borghesia genovese. Ma il suo prestigio è rimasto immutato: essere stati al D'Oria conta ancora. Oggi è tornato ad essere il liceo della «Genova bene». I professori fanno a gara a chi dà più compiti a casa. Gli studenti mirano esclusivamente a «fare media» con i voti, con feroce competitività, sono omologati, vestiti e griffati uguali, l'ambiente è piuttosto snob: si è tornati agli anni '50 con un certo senso di superiorità di alcuni che si ritengono membri di un'èlite rispetto agli altri. Ai figli dei miei amici che frequentano il D'Oria di oggi, sgomenti davanti alle proparossitone (che le ricordava più?) ho cercato di spiegare che il greco antico è tutt'altra cosa. Un paese che non conserva e non conosce il proprio passato non ha futuro, d'accordo, ma anche l'antico si deve evolvere! Chi ha detto che la cultura debba per forza essere pallosa? Bisogna insegnare queste materie in modo moderno e anche divertente: sono il fondamento della nostra identità, della nostra storia e della nostra arte, di tutto quello che insomma è l'Italia. A questo punto, piccola parentesi, vorrei ricordare con grande rimpianto il professor Umberto Albini, eccelso e geniale grecista, col quale ho studiato greco all'Università, recentemente scomparso.

Era nato nel 1923, ma sapeva insegnare il greco antico in modo moderno e affascinante, le sue lezioni erano meravigliose, la sua cultura vastissima. Basta citare una sua frase: «I greci avevano capito tutto, poi sono scomparsi». Gli Italiani sono destinati a fare la stessa fine?

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