Quel manager che conosce la «regola del gioco»

Se è vero che «il tragico della vita è che tutti hanno le loro ragioni», come dice Jean Renoir con una delle battute più geniali della storia del cinema, Sergio Marchionne, in una sola mossa, è riuscito a evitare la tragedia di un gruppo (forse di un’intera industria nazionale) e a mettere tutti d’accordo. Le ragioni, ben diverse tra loro, sono quelle dei protagonisti di un mondo dell’altro secolo arrivato, in questo decennio, al suo crepuscolo: quello dell’auto.
Grandi soci, operai, manager, fornitori, banche, governi alle prese con la crisi più nera dell’industria dell’automobile si interrogano da qualche mese, sul loro futuro. In tutto il pianeta. Le tre big Usa, General Motors, Ford e Chrysler, non sono fallite solo grazie all’intervento pubblico; mentre i costruttori giapponesi licenziano a raffica e quelli europei si interrogano sul da farsi con ricette diverse, nessuna convincente. Un ciclone che non poteva lasciar fuori la Fiat, troppo piccola per farcela da sola. I fasti delle Olimpiadi torinesi del 2006, simbolo del ritorno in auge di un’intera città, insieme con il fantasmagorico lancio della 500 dell’anno dopo, sembrano irriconoscibili, dissolti lungo la discesa del titolo in Borsa, da 24 a 4 euro. E non perché la crisi di oggi sia come quella del 2002-2003, quando Fiat era in ginocchio per errori tutti suoi, modelli sbagliati, marketing fallimentare. Questa volta sono le quattroruote planetarie che si sono sgonfiate. Che fare?
Lo stesso Marchionne ha dichiarato, l’8 dicembre, che nel giro di due anni solo 5-6 gruppi dell’auto sopravviveranno. Sono passati 42 giorni ed ecco che il manager italo-svizzero-canadese ci dice anche la seconda parte: uno di questi sarà lui.
In un colpo solo il manager centra un numero di obiettivi difficili da contare, da quanti sono. Il più pazzesco: Fiat va in Usa a comprare una delle big three 8 anni dopo essere andata a un passo dall’essere comprata da Gm. E lo fa nel momento della più profonda crisi del mercato inventato proprio dagli americani. Il più furbo: non spende un euro, perché in cambio delle azioni Chrysler, Fiat vende agli americani la capacità di fare quelle macchinine piccoline, leggerine e magari diesel che loro non si sono mai sognati di imparare a fare. Ma che ora, nel mercato del futuro, saranno costretti a produrre e vendere. Il più diabolico: dopo aver constatato (e lamentato) l’asimmetria concorrenziale tra i gruppi Usa che avevano ricevuto gli aiuti di Stato e quelli europei, rimasti a secco, che fa Marchionne? Ebbene, gli aiuti se li va a prendere, comprandosi direttamente un gruppo Usa. Il più strategico: candida Fiat, come si diceva, a essere uno di quei famosi sei big mondiali. E senza chiudere la porta ai francesi di Peugeot, che potrebbero entrare nelle partita del grande nuovo gruppo «atlantico». Il più ambizioso: candida se stesso a guidarlo, quel gruppo, indipendentemente dai soci, presenti e futuri; indipendentemente dalla voglia delle tante famiglie Agnelli di continuare, tutte insieme, a fare automobili. E quando mai un manager Fiat italiano del passato avrebbe potuto aspirare a tanto? Nemmeno - crediamo, e non ce ne voglia - il più gagliardo dei Cesare Romiti.
Sia chiaro: questa è una grande scommessa.

Che Marchionne può fare perché le azioni Chrysler, cancellate dalla Borsa, valgono oggi meno che mai. E perché l’azionista è un fondo di private equity. Che accetta, dunque, di buon grado la stessa scommessa. È questa «la regola del gioco» di Renoir. Marchionne la conosce.

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