Quel plebiscito degno di un sultanato

Caro Granzotto, lei ha scritto che in buona sostanza una legge elettorale vale l’altra e quel che davvero è importante sono le riforme costituzionali che, uniche, possono assicurare la governabilità. Io non sono tanto d’accordo perché un sistema elettorale alla francese garantirebbe già la governabilità e poi non si può davvero dire che il mattarellum equivalga al sistema tedesco e spagnolo e ciò sta a significare che ci sono leggi buone e leggi meno buone anche nel campo delle leggi elettorali. Ad esempio a me non piace dover votare alla cieca, senza cioè esprimere una preferenza mirata. Ma non voglio entrare in polemica e non è tanto questo che mi interessa quanto il riferimento che lei ha fatto alla prima votazione e dunque alla prima legislatura italiana. Che sistema era in voga, c’erano i partiti? E chi vinse? Un’ultima domanda: potrebbero considerarsi le prime elezioni italiane i plebisciti?


No, caro Rossi, i plebisciti non sono ritenuti la prima delle consultazioni elettorali ed è bene che sia così. Perché furono una farsa. Roba che se ci fossero stati gli osservatori dell’Onu finivamo dritti dritti davanti al Tribunale dell’Aia. Lo storico Cesare Cantù, non esattamente un filoborbonico, scrisse, riferendosi a quanto accaduto a Napoli: «Qui il plebiscito giungea fino al ridicolo, poiché oltre a chiamare tutti a votare sopra un soggetto dove la più parte erano incompetenti, senza tampoco accertare l’identità delle persone e fin votando i soldati, si deponevano in urne distinte i “s씻 ed i “no”, lo che rendeva manifesto il voto; e fischi e colpi e coltellate a chi lo desse contrario». Un villano gridò: «Viva Francesco II!» e fu ucciso all’istante. La consultazione elettorale per eleggere la prima delle legislature fu convocata per la domenica 27 gennaio 1861. Essendo il Senato di nomina regia, si votava solo per la Camera dei deputati che si insediò nel febbraio dando vita, nei quattro anni di durata, a ben cinque governi (anche se il primo venne meno per la morte del suo presidente, Cavour), dando così l’impronta a tutte le legislature successive. Il sistema elettorale era un maggioritario alla francese: collegi uninominali e due turni. Non c’erano partiti organizzati, ma due schieramenti, la sinistra (con l’«estrema» rappresentata dai seguaci di Mazzini e di Garibaldi) e la destra storica. Ma più che il programma contava il candidato, scelto fra i personaggi di spicco e, come si diceva nel Meridione, «di panza». L’Italia dei notabili, insomma.
Su circa 21 milioni di cittadini, gli aventi diritto al voto risultarono 418.695. E questo perché le leggi del Regno sabaudo - ma non è che negli altri Paesi le cose andassero meglio: i tempi erano quelli - lo attribuivano ai cittadini maschi alfabetizzati che, godendo dei diritti civili e politici, avessero compiuto 25 anni e pagassero imposte per almeno 40 lire, che era una bella cifretta. Godevano di guarentigie i laureati, i notai, gli esercenti, ufficiali sia in servizio che in pensione (eh! Vecchio Piemonte!), i professori di università e i magistrati.

Comunque sia, per eleggere gli 85 nobili, 72 avvocati, 52 fra liberi professionisti e docenti universitari e 28 alti ufficiali del Regio Esercito che avrebbero formato il primo mezzo Parlamento dell’Italia unica e indivisibile (ancorché monca del Veneto e di Roma: dovevano ancora manifestarsi le ultime due delle tre esse che a detta di Bismark hanno fatto l’Italia: Solferino, Sadowa, Sedan), dei poco più di 400mila elettori se ne recarono alle urne solo 170mila 567. Su, ripeto, 21 milioni di cittadini. Cosa che fece dire a Massimo D’Azeglio: «Queste Camere rappresentano l’Italia così come io rappresento il Gran Sultano turco».

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