Quel porto che inizia dove si fermano i giudici

Quel porto che inizia dove si fermano i giudici

Lo scandalo del porto di Genova, i cui risvolti giudiziari sono ancora in corso, sarebbe dovuto ad una potente lobby economica di «prenditori» che, contando su una più che remunerativa rendita di posizione sulle banchine, avrebbe dichiarato una guerra occulta ad ogni possibile cambiamento o ammodernamento dell'area portuale. Da qui la fortissima avversione all'Affresco di Renzo Piano, e cioè al progetto che ridisegnava l'intero arco del Waterfront genovese, e la lotta senza esclusione di colpi contro Giovanni Novi, l'ex presidente dell'Autorità portuale di Genova, che aveva avuto l'imperdonabile colpa di aver fortemente voluto la realizzazione dell'idea del grande architetto, considerato il genovese più conosciuto nel mondo. Questo, almeno, è quanto viene denunciato, con dovizia di particolari e ampie spiegazioni, nel libro «L'altro fronte del porto» del giornalista genovese Camillo Arcuri, Ugo Mursia Editore.
Arcuri, professionista di lungo corso con una profonda conoscenza del mondo portuale genovese e nazionale, specifica fin dalla copertina i contenuti della sua ricerca, indicandoli nel sottotitolo: «Rotta sugli scandali di cui non si parla: lobby e mafie sui moli, il caso Genova, la legge delle cosche da Gioia Tauro a Palermo, container clonati a Napoli».
E che si parli di mafie anche a Genova non deve stupire nessuno, visti anche gli «avvertimenti» che i protagonisti di questa incredibile storia all'ombra della Lanterna, hanno ricevuto. Basti pensare a quanto accadde allo stesso Novi, poco prima che scoppiasse il caso giudiziario che lo ha visto come imputato. Infatti, racconta Arcuri, una sera Novi trovò la sua «Panda» di servizio coperta da un grosso drappo nero su cui mani ignote avevano sistemato diversi pezzi di carne sanguinolenta messi in modo da disegnare una macabra croce.
Una nomina bipartisan
Ma vediamo, in sintesi, che cosa dice Arcuri in questo suo saggio che, se non verrà opportunamente ignorato dalla stampa locale, dovrebbe provocare non poche discussioni e riflessioni. Almeno per quanto riguarda il caso Genova. Tutto inizia nel 2004 quando, in modo assolutamente bipartisan, il broker Giovanni Novi, titolare dell'ufficio di brokeraggio marittimo Burke & Novi, viene nominato presidente dell'Autorità Portuale genovese al posto dell'avvocato Giuliano Gallanti, di area comunista. Novi non è un politico. Anzi, è piuttosto un noto sportivo, già presidente del prestigioso Yacht Club Italiano, e la sua formazione professionale è di tipo internazionale, soprattutto «made in England».
Il suo anticonformismo, ci spiega Arcuri, si vede fin dalle prime battute del suo incarico quando, contrariamente al comportamento di tanti suoi predecessori, Novi collabora con Gallanti per il passaggio delle consegne, come si fa tra galantuomini. Ed è appunto questa sua caratteristica, e cioè quella di essere definito da tutti «il presidente galantuomo», che lo accompagnerà fino alle 14,30 di lunedì 4 febbraio 2008, ultimo giorno dei quattro anni vissuti «sulla tolda del porto di Genova», quando alcuni agenti della Finanza in borghese gli notificarono un mandato di arresto, ai domiciliari. Novi, che in quel momento si trovava insieme alla sua famiglia, era completamente impreparato a quell'evenienza. La moglie Nucci, notissima a Genova anche per i suoi trascorsi velici e gli incarichi politici, già malata da tempo, per il dispiacere entra in coma. Morirà sette giorni dopo, senza aver ripreso conoscenza.
La lobby contro Piano
Ma torniamo all'insediamento di Novi a Palazzo San Giorgio. Non appena prende possesso del suo ufficio, Novi si trova davanti alle tavole del maxi progetto di Renzo Piano. Si trattava, spiega Arcuri, «della genialità di un disegno capace di aprire a Genova non solo maggiori spazi operativi in banchina, ma anche nuovi spazi di vivibilità, di speranza, di bello». Infatti, non soltanto l'intero Waterfront di Genova veniva cambiato in meglio dividendo nettamente l'area urbana da quella produttiva, ma il progetto di Piano costituiva «finalmente un risarcimento storico a quella parte della città di ponente, la stessa dov'egli è nato, che più ha pagato in termini di degrado la prima e seconda industrializzazione».
Ma è troppo bello per essere vero. E lo si capisce quando l'architetto presenta ufficialmente l'Affresco. «...I sorrisetti tirati, indecifrabili, le frasi prudenti, di circostanza, erano la reazione più diffusa tra l'establishment - scrive Arcuri - Un ascoltato big dell'industria navale, Marco Bisagno, uno tra coloro che paventavano di doversi allocare altrove per via dell'Affresco, mugugna che si tratta di una scemata».
Fu l'inizio della guerra. Quell'idea di «conciliare l'efficienza portuale con la qualità della vita», non piaceva. Così come non andava giù quel ficcanasare di Novi che voleva conoscere meglio la situazione delle banchine. «In porto - è risaputo - c'è di tutto: lavanderie, botteghe, studi professionali, aziende che hanno ben poco a che fare con l'attività delle banchine e, al primo tentativo di fare chiarezza censendo la situazione esistente, scatta l'ostruzionismo». In altre parole: tutto doveva restare com'era e Novi doveva farsi i fatti suoi. Il partito del «maniman» si stava attivando.
Partono così le prime, occulte, bordate. Qualcuno paventa che il piano idraulico-marittimo dell'Affresco non è praticabile, ma le verifiche smentiscono completamente questa accusa. Poi salta fuori l'enormità del costo: quattro miliardi di euro, una mezza finanziaria. Ma anche in questo caso arrivano due banche d'affari, una australiana e una inglese, pronte a staccare l'assegno se soltanto ci fosse l'OK al progetto.
Allora gli attacchi si spostano sul piano logistico. La lobby portuale, infatti, teme l'arrivo di una nuova concorrenza e, «soprattutto, nonostante nessuno lo ammetta, una sorta di agorafobia, la paura dei grandi spazi liberi (e la svolta di Piano ne apre in quantità): una vera iattura per chi trae cospicui redditi dall'uso di piazzali e banchine come aree di sosta dei container». Del resto, dice sempre Arcuri, basti pensare che «mediamente a Genova un container sosta quindici giorni, mentre a Rotterdam solo tre». Insomma, «dietro l'ostracismo riservato a Piano (e a Novi suo sostenitore), c'è dunque anche l'atteggiamento mentale che divide l'operatore logistico dal posteggiatore, l'imprenditore dal prenditore».
Le indagini di Novi
A tutto questo si deve aggiungere che Novi, sempre più consapevole di aver trovato una situazione inverosimile in porto, voleva vederci chiaro e aveva cominciato ad indagare su contratti e conti. «Verificare le concessioni dei terminal, la congruità dei conti, le forniture esterne, persino le maxiparcelle degli avvocati - afferma Arcuri - Era davvero troppo per le lobby interne ed esterne di palazzo San Giorgio, che un presidente si comportasse come un manager nella propria azienda privata».
Più andava a fondo nelle cose e meno gli sembrava regolare quello che trovava. E così, alla fine, Novi si rivolse alla Procura della Repubblica. «Novi - scrive Arcuri - conferma le sue preoccupazioni, già espresse in altre sedi competenti (dirigenti del Ministero dei Trasporti, Corte dei Conti, presidente del Tribunale), per le situazioni anomale trovate a palazzo San Giorgio: trattamenti di favore ai soliti noti, confusione sui canoni. Per approfondire il capitolo delle concessioni demaniali i magistrati gli affiancano un terzetto di investigatori (il capitano di corvetta Massimiliano Grimaldi e un sottufficiale, Marco Esposito, detto Gigante, entrambi della Capitaneria, più il tenente Luciano Cotroneo della Finanza). La collaborazione va avanti per mesi, poi, nel luglio 2007, il colpo a sorpresa: i tre segugi incaricati di indagare spariscono senza spiegazioni, improvvisamente trasferiti di sede o di incarico; non si sa».
Il «patto di sangue»
Secondo Arcuri, comunque, ciò che emerge è una specie di «patto di sangue» tra gli operatori marittimi per cercare di distruggere il presidente dell'Autorità Portuale. Non gli servì neanche districare l'ingarbugliata matassa dell'assegnazione del terminal Multipurpose, azione per la quale ricevette un plebiscito di consensi anche da parte dei suoi detrattori. Ormai le accuse gli fioccavano da ogni parte. «A rincarare le accuse - spiega sempre Arcuri - provvede qualche mese dopo, nel novembre del 2007, l'armatore Ignazio Messina. È lui che in un paio di interrogatori dipinge in sostanza il presidente dell'Authority come un satrapo delle banchine, capace di piegare i componenti del comitato portuale ai propri voleri, o con minacce o con trucchi da illusionista, quasi le “vittime”, i terminalisti, fossero ingenui bamboccioni e non lupi da combattimento selezionati dalla quotidiana competizione nell'arena del mercato globale».
In conclusione, «viene ravvisata tutta una serie di reati, concussione, truffa, turbativa d'asta, ispirati da un unico “disegno criminoso”: favorire - ecco l'assunto centrale - l'indocile compagnia dei camalli».
Novi non solo rigetta tutte le accuse, ma sferra anche un ultimo attacco direttamente al cuore dell'imprenditoria portuale. «Va messo un freno - afferma l'ex presidente nel libro di Arcuri - alla speculazione di quei terminalisti che passano di mano in mano le società titolari della concessione, pagata zero, vendendo i pacchetti azionari a suon di milioni di euro, il che significa vendere opere costruite a spese dello Stato, senza che nulla rientri nelle casse pubbliche. Ci sono terminal comprati e venduti decine di volte, un ricco mercato a spese della comunità...».
La guerra a quel punto si fa senza esclusione di colpi. Finisce il tempo delle polemiche e dei distinguo. «Poi dai circoli ristretti è partito il via libera dei maggiorenti - scrive Arcuri - “Va fermato. Bisogna picchiare forte”, è la consegna dettata al fido scriba e subito data alle stampe». Ed entra in gioco anche l'ingranaggio mediatico. Si arriva al punto che il procuratore capo Francesco Lalla «mette per iscritto un netto dissenso rispetto al provvedimento dei “domiciliari” firmato da un paio di suoi sostituti».
Per la cronaca, alla fine anche Renzo Piano si è arreso regalando il suo progetto al Museo del Mare. Non lo ha detto, ma lascia capire che la sua intenzione sia quella di far vedere ai genovesi delle prossime generazioni come poteva essere la loro città se l'interesse di pochi non avesse prevalso su quello dell'intera comunità.


Tornando a Novi, comunque vada l'iter giudiziario attualmente in evoluzione, agli atti resta una dichiarazione fatta a suo tempo da Paride Batini, storico console della Compagnia Unica, scomparso di recente, il quale a proposito dell'ex presidente dell'Autorità portuale disse: «Mi gioco il collo contro un caffè che Novi non si è mai messo in tasca niente. Può avere anche sbagliato pratiche o procedure, ma sull'onestà della persona non ammetto dubbi». Peccato, però, che in una foresta piena di lupi, a volte la sola onestà non basti per sopravvivere.

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