Politica

Quel taglio fiscale possibile e la lezione degli anni Settanta

Montanelli nel '74 ragionava sull'ipocrisia di aumentare le imposte solo perché qualcuno non pagava. Ridurre le tasse costa poco all'erario e può innescare un calo serio sulla spesa pubblica

La lettura della prima pagina del primo numero de Il Giornale del 1974, diretto da Indro Montanelli non è solo un modo per riportarci al passato, un cimelio. Ci sono cose molto attuali, come la tabella dell’imposta personale sul reddito, da poco introdotta in Italia, con la riforma tributaria Visentini. Ci sono le aliquote per le varie classi di reddito, col confronto fra quelle inizialmente stabilite e le nuove, che ci si apprestava a introdurre, aumentate del 10%, per rimediare al calcolo iniziale troppo ottimistico. Il numero di aliquote era molto più alto che adesso. Erano ben 9, cominciando dallo scaglione sino a 5 milioni di lire (pari a 2.500 euro, ma con un valore molto maggiore, in potere di acquisto) per finire con lo scaglione da 16 milioni di lire, che comportava una aliquota del 34%. Essa veniva portata al 37,4 in conseguenza dell’aumento del 10% di tutte le aliquote. Dunque il tetto dell’imposta personale, dopo l’aumento, che veniva presentato come provvisorio, era molto più basso di quello attuale, che con l’aggiunta delle addizionali regionali e comunali arriva al 45 per cento. Quando si chiede, a gran voce, che si adotti una aliquota massima del 33%, non si presenta una ipotesi sostanzialmente diversa da quella all’inizio della riforma tributaria. Che si era rivelata impraticabile, perché gli abbienti, con un reddito diverso dal lavoro, sfuggivano al fisco, la cui macchina era (ed è rimasta) molto imperfetta. E, dopo quell’aumento di aliquote, non si è più tornati indietro. Si è continuato con aumenti per fare fronte al malanno dei contribuenti che non pagano e a quello delle nuove spese. Queste negli anni ’70 hanno dilagato, grazie al «compromesso storico» (così si chiamava, ma era un compromesso e basta) fra democristiani spostatisi alla sinistra della propria tradizione e comunisti, rafforzati da sindacati, all’insegna del «vogliamo tutto». Il Giornale combatté difficili battaglie per il buon senso. Il quale dice che si possono abbassare le imposte solo se tutti le pagano e se non si fanno spese di illusoria socialità. Ciò che quella storia del passato ci deve insegnare è che la pressione fiscale non si abbasserà mai, se non ci si decide a evitare l’eccesso di spese, derivante dal fatto che chi ne beneficia o non ne paga il costo o crede di non pagarlo. E così vengo, tramite questa lettura del primo numero del nostro giornale, al fatto del giorno. Il ragionevole progetto di Berlusconi di eliminare l’Irap gradualmente. Torno a spiegare come lo si può fare, senza scassare la finanza pubblica. E senza ingannare i cittadini sul costo della socialità, secondo il malcostume della sinistra pasticciona. L’Irap va divisa in due parti, perché è stata confezionata mettendo insieme due cose diverse, la tassazione dei profitti e degli interessi (prima attuata con l'Ilor) e il contributo sanitario, che era del 6% e aveva come base il reddito di lavoro prima delle imposte. Nel 1996 Prodi col trucco dell’Irap aumentò i contributi sociali per le pensioni profittando del fatto che quelli sanitari erano ufficialmente spariti. Ma è bene che i cittadini sappiano che la sanità si paga con l’Irap. Su 40 miliardi di gettito, 10 gravano sui redditi di lavoro pagati dalle pubbliche amministrazioni, altri 20 sui redditi di lavoro pagati dagli operatori economici di mercato, dalle grandi imprese agli artigiani. E altri 10 sui loro profitti lordi di interessi passivi. Il contributo sanitario nascosto nell’Irap è di 30 miliardi. Per gli operatori di mercato è un costo, va detratto perciò dai loro imponibili dell’imposta personale o sulle società. Si tratta, come si è visto, di 20 miliardi. Data una aliquota media del 33 per cento dell’imposta sul reddito personale o sulle società, il beneficio per gli operatori di mercato è di circa 7 miliardi. Se questa misura viene attuata in due anni il costo annuo per l’erario è 3,5 miliardi. Una cifra sopportabile, che va coperta limando altre spese, che diversamente si farebbero. La quota di Irap sugli interessi passivi è di circa 6 miliardi. Se la si detrae dall’imponibile dell’imposta sul reddito, come equo, la perdita di gettito è di 2 miliardi. Questa è la prima parte della manovra graduale di smantellamento dell’Irap, con un costo sopportabile, senza avventure finanziarie. Il resto, che ho già descritto in altri articoli, è sopportabile per l’erario, se attuato man mano. Ma richiede altre economie di spesa, tramite riforme e privatizzazioni.

Se non si imbocca questa strada, si rimarrà sempre nella melma della falsa socialità inaugurata a metà degli anni ’70.

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