Roma - Adesso tutti a lisciare il pelo a quella vecchia volpe di Bossi. È bastato che il Senatùr arricciasse il naso su alcune scelte dell’alleato Berlusconi in campagna elettorale che lo zootico e razzista padano è diventato politico presentabile e moderato. È bastato che Calderoli si smarcasse dalla proposta pidiellina di bloccare le demolizioni delle case abusive in Campania che l’orribile dentista celtico è diventato decorosissimo ministro con la testa sulle spalle. È bastato che il bifolco Umberto criticasse la Moratti per aver tirato fuori una vecchia sentenza contro l’avversario Pisapia che subito è diventato responsabile, saggio e affidabile. Cigliegina sulla torta: tutti quegli attestati di stima rivolti dal Carroccio al Quirinale hanno elevato la Lega a forza matura e coscienziosa. Persino il centrista Casini ha applaudito al nuovo volto bossiano dicendo che «la Lega sembra la parte più moderata dell’alleanza tra Pdl e Carroccio. Segno della metamorfosi avvenuta».
E ancora, l’altra sera ad Annozero, il leader dell’Udc magnificava il sindaco di Verona, Flavio Tosi: «È un moderato, un responsabile». Eppure fu proprio Casini, nel 2007, a cercare di mettere i bastoni tra le ruote al sindaco di Verona, preferendo candidare per quella poltrona il suo uomo, Alfredo Meocci. E sulla metamorfosi leghista Gad Lerner la pensa allo stesso modo seppur con qualche diffidenza in più: «Oggi la Lega - scrive in un suo editoriale - riesce a presentare di sé, con disinvolta messinscena, una fisionomia moderata. Con la sua astuta presa di distanza dalla campagna forsennata contro i magistrati e il presidente della Repubblica, il partito di Bossi intravede un nuovo spazio da occupare e mira a offrirsi come alternativa ragionevole per l’elettorato conservatore del Nord».
Messinscena o meno, Bossi da rospo è diventato un principe. Miracolo dell’antiberlusconismo: appena gli anti-Cav individuano qualcuno in grado di offuscare il successo della loro ossessione, ossia Berlusconi, partono gli applausi, gli elogi e i salamelecchi. Poco importa se lo stesso Senatùr abbia infranto i sogni della sinistra ammettendo candido che a lui non conviene rompere: «Ci sono quelli che mi dicono di staccare la spina, e io rispondo “calma”, perché, per fare le riforme, occorrono i voti e a noi Berlusconi li ha dati». Più terra a terra, rivolto ai cronisti: «Con Berlusconi va tutto bene, siete voi che non sapete che cosa cazzo scrivere». Ma tant’è. Tutti a corteggiare Bossi. Tutti a tirarlo per la giacchetta, come riconosciuto dallo stesso leader leghista: «Poi ci sono tutti gli altri, compreso Fini che hanno detto “noi ti diamo un voto” per l’approvazione del federalismo e tu ci dai un nome per sostituire Berlusconi e noi lo facciamo premier: ma io ho detto no».
Appena s’intravede una crepa nel rapporto Silvio-Umberto, la sinistra ci si butta a pesce sperando che l’incrinatura diventi un irrimediabile squarcio e il Cavaliere caschi per terra. La logica è elementare: finché stai col Caimano sei quasi peggio di lui, se ventili l’ipotesi di abbandonarlo diventi giusto, pregevole, genuino, persino un virtuoso. D’altronde è già successo. Nel 1995, quando Bossi fece lo sgambetto al primo governo Berlusconi, da D’Alema partì l’incenso: «La Lega è una costola della sinistra». Poi, quando Bossi tornò con Berlusconi, ritornò a essere razzista, xenofoba, populista, demagoga.
Lo schema si sta ripetendo con Fini. Il cofondatore del Pdl era un fascistello opportunista capace di rimangiarsi la parola innumerevoli volte; era un bravo oratore ma solo «chiacchiere e distintivo». Persino Casini, con il quale adesso fa comunella nella veste di allenatore del Terzo polo lo sbeffeggiò dandogli del traditore quando giurò che sul predellino non ci sarebbe mai salito. Insomma, un inaffidabile.
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