Quell’assordante silenzio dei (quasi) innocenti

La colpa è figlia della responsabilità e madre del crimine. Il recente caso eclatante di Milano, con il capo di un governo nel ruolo di vittima, ce lo ha ricordato a contrario, proprio perché subito catalogato come gesto di una persona «disturbata», «psicolabile». Svuotato della componente di «responsabilità», ha automaticamente perso anche quella di «colpa», finendo nell’archivio delle Fatalità. Ma se il perdono, come la giustizia, farà il proprio corso, il fatto resta, ed è un seme avvelenato che può diffondere la mala erba della violenza.
Tuttavia, quando l’irresponsabilità non discende soltanto dalla malattia mentale, ma anche dall’immaturità e, peggio, dall’emulazione di un modello malefico e purtroppo autorevole, come la mettiamo? Il quesito è più arduo per i giuristi, i quali hanno il compito di rispondere, che per gli scrittori, esentati dalla risposta, a patto che pongano bene la domanda. Come accade, per esempio, nell’angosciante romanzo di Jack Ketchum datato 1989 e proposto in Italia per la prima volta: La ragazza della porta accanto (Gargoyle, pagg. 288, euro 17, traduzione di Linda De Luca). La storia, ispirata da un fatto di cronaca accaduto a Indianapolis del 1965, non può non ricordarci un altro romanzo-verità dalle tinte foschissime, A sangue freddo di Truman Capote, e viene spostata dall’autore nel suo New Jersey sul finire dei Cinquanta, epoca d’oro per chi, in letteratura come nel cinema, voglia affondare le mani nel ventre molle della Provincia Americana, assurta a mito fondante della modernità.
Estate del 1958. Due sorelle, la quattordicenne Meg e la dodicenne Susan Loughlin, orfane di entrambi i genitori in seguito a un incidente stradale, sono accolte nella casa della zia di secondo grado Ruth Chandler, divorziata e madre di tre ragazzini: Donny, Willie e Woofer. La comunità del quartiere comprende un nugolo di altri teenager i quali, capovolti in positivo, sarebbero la copia esatta della banda di Charlie Brown. Invece... Invece nei loro giochi c’è già un sottofondo di violenza che si esercita, per il momento, sui lombrichi gettati in pasto alle formiche o sulle processionarie date alle fiamme. Del gruppo fa parte anche la voce narrante David Moran che abita, con mamma e papà ormai separati in casa, nella villetta accanto a quella dei Chandler. Quando incontra Meg al fiume, mentre è intento a catturare un gambero, ma soltanto per osservarlo da vicino e poi liberarlo («Sembrava primitivo, efficiente, implacabile, bellissimo»), per David è quasi un colpo di fulmine.
Parrebbero le premesse di una commedia sdolcinata. Sono invece i prodromi di un incubo amarissimo. Perché Ruth, nella quale fino a pochi giorni prima la banda di pivelli vedeva una musa protettiva, una specie di baby sitter di ampie vedute, si trasforma con rapida metamorfosi in una megera. Linguaggio scurrile, sigarette una via l’altra, birre e whiskey come se piovesse. È Meg, la più bella, la più adulta, la più intelligente del gruppo, a far scattare in lei la molla della rabbia per un matrimonio fallito, una giovinezza che se ne va, una situazione economica traballante. Alle prime avvisaglie di squilibrio mentale della donna, la fanciulla, obbedendo più alla ragione che alla paura, il 4 luglio (festa dell’Indipendenza...) informa della situazione un poliziotto locale, l’agente Jennings. Ma lo sbirro ottimista, fra i capricci di una smorfiosa e la pazzia di un’adulta sposa senza indugio la prima ipotesi...
Così il rifugio antiatomico dei Chandler, uno squallido scantinato che puzza di cemento e umidità, diventa la cella dove l’angelica Meg subisce le torture della carceriera. E i suoi amichetti, direte, non reagiscono? Ecco spuntare l’immaturità e l’emulazione del modello malefico cui accennavamo. Sia i figli di Ruth, sia gli altri ragazzini sono strumenti fra gli artigli dell’arpia, e s’accaniscono sulla quasi coetanea calpestando, umiliando, bruciando quel fiore proprio mentre sta sbocciando. Soltanto David non partecipa alla mattanza e, preso tra i due fuochi del senso di colpa per la propria vigliaccheria e dell’attrazione perversa per il dolore altrui, si limita ad assistere impotente: «Era come nei sogni o in quei giochi che si fanno ad Halloween, quando tutti indossano il costume e non sono riconoscibili, anche se sai chi sono»; «La vergogna guardò dritto in faccia il desiderio, e poi distolse lo sguardo». Ma, giunti al culmine dell’abiezione...
Che il sessantatreenne Dallas Mayr si sia scelto il nome d’arte di Jack Ketchum in «onore» di Thomas «Black Jack» Ketchum, un fuorilegge texano specializzato in rapine ai treni impiccato nel 1901, come sostiene l’esperto di letteratura horror Elvezio Sciallis, o piuttosto di Jack Ketch, il boia inglese della seconda metà del Seicento al servizio di Carlo II, come spiega Stephen King nella postfazione al libro, ciò che conta è la maestria con cui fa montare la tensione della sua storia, utilizzata come base per la sceneggiatura di due film del 2007, l’omonimo The Girl Next Door di Gregory Wilson e An American Crime di Tommy O’Haver. Il buon Dallas, che quando non scrive è un tipo mite appassionato di Elvis Presley e di dinosauri, dice di ispirarsi (in Italia sono usciti anche In viaggio con l’assassino - Sperling & Kupfer, 1995 - e, quest’anno, Red - da Mondolibri), ai film La notte dei morti viventi di George A.

Romero, del ’68, e The Texas Chainsaw Massacre (da noi Non aprite quella porta), del ’74, di Tobe Hooper.
Meg, della quale non riveliamo il destino, è senza dubbio il suo personaggio più riuscito. Ci ricorda la Clarice Starling del Silenzio degli innocenti. Ma qui il silenzio che la circonda è colpevole. O no?

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