Quell’Italia innamorata di Giulietta (e Romeo)

C’erano i lancisti. Di solito gente di mezza età, dalle buone maniere, la voce bassa, la giacca e il gilet, le scarpe sempre lucide, a volte calzavano anche i guanti, roba da cumenda. C’erano i fiatini, gente ordinaria, famiglie numerose, portapacchi, automobile lavata al sabato mattina, tappetini in omaggio al momento dell’acquisto, ruote con fascia bianca sul copertone.
Poi gli alfisti. Una razza a parte. O poliziotti o macellai. Strano, non poteva esserci una via di mezzo, o sirene spiegate, mitra e paletta o bracciali d’oro all’orologio e quarti di bue nel frigorifero dietro il bancone. La Giulia significava l’Alfa, sembrava non ci fossero altri tipi di autovettura, la Giulia e basta. Eppure c’era stato il tempo della Giulietta, un diminutivo vezzeggiativo utilissimo per cuccare, trattandosi di coupè o di spider si andava con la zazzera al vento nonostante la brillantina Linetti in dosi industriali a lucidare il capello. Era bellissima, velocissima, direi carissima. Essendoci Romeo ovviamente doveva esserci una Giulietta, meno romantica ma molto amata, le sue trecce morbide erano i cavalli che sviluppavano una potenza quasi inedita per il tempo, in assenza di autovelox si andava che era un piacere. La Giulia idem come sopra, roba grossa, corposa, ricordo una di colore bordeaux che sarebbe quasi amaranto. La ripresa, nel senso dello spunto iniziale, era da pole position. Ci fu la Duetto, guidata da Benjamin Braddock ne «Il Laureato», vale a dire Dustin Hoffman sull’«Osso di seppia» rosso sulle strade d’America inseguendo un amore mica i guappi nei vicoli di Napoli a bordo della Giulia color verde marcio della polizia nostrana. Tutte le Alfa vengono al pettine, fetta di vita antica, clacson bi e tritonali, sorpassi fulminei e fulminanti, partenze e frenate da ganassa, insomma quando spuntava la Sprint o la Spider o la Coupè potevi già disegnare a memoria l’identikit del conducente e del passeggero, occhiali da pilota aerodinamici di un Savoia Marchetti per lui e foulard al vento per lei, totale: un’invidia feroce per chi viaggiava verso la dolce vita o la vita dolce, dipendeva dai gusti.
Alfisti, dunque, si nasceva, ancora si resiste nonostante cambiamenti, se non violenze, allo stile e alla freschezza del marchio. Poliziotti e macellai, ho detto, dalla Giulia all’Alfetta, sempre di inseguimenti e blitz si trattava e si tratta. Carrello basso, volante con finitura in legno lucidato, con razze in acciaio, guidavi rasoterra, quando ti si affiancava un camion sembrava King Kong, basta un colpo rapido sull’acceleratore e lo lasciavi a cento metri. Alfa, bastava la parola. L’Alfa, articolo al singolare perché se pronunciato al plurale allora trattavasi della sigaretta, senza filtro, le Alfa, roba da polmone intasato al primo tiro, secondo detto popolare la tipica fumata dei muratori, sembrava un destino, il triangolo era chiuso, polizia, macelleria, cantiere, rob de matt. Quando dicevi Alfa pensavi subito a Milano, il panettone, la madonnina, San Siro,la fabbrica del Portello e poi di Arese, il rombo della Giulia e lo sprint della Giulietta. Roba antica, nostalgia di strade meno intasate, di viali e di controviali, di parcheggi facili, di finestrini tirati su e giù con la manovella.

Eppure, cento anni dopo, l’Alfa Romeo resta moderna, quasi una neonata, una sorpresa che attendiamo e puntualmente si manifesta, come una vecchia fiamma che non invecchia e che abbiamo tradito con qualche ferrovecchio di passaggio. Consoliamoci: non ci sono più i poliziotti e i macellai di una volta. L’Alfa, invece, sì, lei esiste. E resiste.

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