Quell’omino senza nome che fermò i tank del regime

Il mistero circonda la sorte del giovane immortalato nella foto diventata il simbolo di una rivoluzione finita in strage. Gli studenti di oggi pensano solo a soldi e carriera.

Quell’omino senza nome  
che fermò i tank del regime

Un omino in bianco e nero, visto di spalle, sull'attenti. Bianca la camicia, neri i calzoni. Un tipo smilzo, sui vent'anni; anzi, sparuto, come spesso sono i cinesi a quell'età. In ciascuna mano regge un sacchetto, di quelli della spesa. Davanti a lui, una colonna di carri armati. Muovono da piazza Tienanmen verso l'avenue della Pace Eterna. Cioè vorrebbero muovere, ma non possono, perché davanti al primo tank si para all'improvviso l'omino in bianco e nero. Nessuno sa chi è. Nessuno, a parte il carrista imbambolato che lo scruta negli occhi dalla sua scatola di ferro, saprà mai descriverne i lineamenti. Nessuno degli operatori che immortalarono la scena dalle finestre del Beijing hotel riuscì a riprenderne il volto. Per tutti, da allora, è solo l'Uomo del carro.

La scena, chi vuole, può andare a rivedersela su YouTube. Il blindato, enorme, spaventoso, ruggente, cerca di aggirare l'omino sulla sua destra; ma il ragazzo, agitando minaccioso il sacchetto che tiene nella mano destra, come si farebbe per intimorire un toro schiumante (ad averci il coraggio, s'intende) si sposta rapido di lato, come accennando due passi di danza. Il carro allora gira a sinistra, ma il ragazzo si sposta ancora, svelto, incurante dei cingoli che sono lì, a un metro da lui, e potrebbero sfracellarlo. Poi se ne stanno lì, fermi. L'omino impalato sull'attenti, il mostro d'acciaio immobile, sconfitto, il motore inutilmente imballato.

Era il 5 giugno di vent'anni fa. Il giorno prima il governo comunista cinese aveva ordinato ai carri di sparare sugli studenti che si erano radunati sulla piazza per protestare contro la corruzione e per chiedere un po' di democrazia senza aggettivi ai gran sacerdoti della «democrazia del popolo». Sembra una storia di ieri l'altro. Eppure è accaduta nell'altro secolo, in un tempo in cui nessuno pensava ancora che il comunismo potesse venir giù come un sasso. Di quel ragazzo, la cui silhouette finì sulle magliette e sui poster, come la faccia di Che Guevara, simboli di un'epoca, nessuno sa nulla. Scomparso, come un fantasma. Finì in carcere? Lo uccisero, per aver messo in imbarazzo e ridicolizzato il Partito davanti agli occhi del mondo? Nessuno lo sa. La rivista americana Time lo definì una volta «il ribelle sconosciuto», inserendolo nella lista dei venti più grandi rivoluzionari del secolo. Ma anche l'autista del carro, che certamente passò i suoi guai per aver disobbedito agli ordini, che erano quelli di avanzare, andrebbe collocato in una lista di eroi.

L'omino in bianco e nero, chissà che fine ha fatto. Il Sunday Express, tabloid inglese, parlò di un tal Wang Weilin, diciannovenne figlio di operai. Ma la dissidenza cinese smentì la notizia, dicendo che gli inglesi (gli càpita, talvolta) si erano inventati tutto. Messo alle strette, il giornalista autore del molto presunto scoop ammise che lui in Cina non c'era mai andato, e che insomma si era fidato di certe telefonate che gli avevano fatto alcuni «amici» del ragazzo. Altri presunti testimoni pretesero di sapere che era una specie di Renzo Tramaglino venuto da fuori. Uno che si mette contro i gendarmi così, d'impulso, senza valutare il tipo di guai ai quali andrà incontro, come appunto Renzo nel giorno dell'assalto ai forni, a Milano. Chi si è appassionato all'identità dell'uomo misterioso ricorda che il 6 giugno del 1990, nel primo anniversario della rivolta soffocata nel sangue, un funzionario del Dipartimento di Stato, Kent Wiedeman, disse che l'amministrazione Usa conosceva il suo nome. Ma in seguito non se ne seppe più nulla. E insomma è facile che abbia ragione quel funzionario di Human Rights che al Los Angeles Times disse una volta: «Se un uomo che ha avuto il coraggio di opporsi a un carro armato fosse vivo e libero, certamente sarebbe uscito allo scoperto, non sarebbe rimasto zitto per tutto questo tempo». Ce ne sono alcuni - per completare il panorama delle illazioni sul conto dell'eroe in bianco e nero armato di due sacchetti da supermarket - i quali sostengono che il ragazzo, acciuffato e pestato per bene dalla polizia segreta fino a fargli passar la voglia di fare altre spiritosaggini passò anni in carcere. Altri ancora sostiene che sia stato tolto di mezzo senza troppo clamore, nei giorni seguiti a quella strage.

Nel 1999, a un giornalista che gli chiedeva notizie in merito, il presidente Jiang Zemin rispose (in un inglese equatoriale): «Io penso lui non ucciso». Raccontò, il presidente, di aver compiuto una serie di ricerche - tutte infruttuose - negli ospedali, nelle carceri, negli obitori. Sarà vero? Certo non è bello dare del bugiardo, senza prove, a un presidente.

A Pechino, del resto, è inutile chiedere. Di quella storia la gente non sa nulla. Chi c'era, come dicono a Palermo, dormiva. Nessuno ha mai visto quell'immagine. Nessuno può scaricarla da Internet. Sicché, la testimonianza più diretta di quell'evento resta quella di Jeff Widener, il fotografo dell'Associated Press che riprese dalla finestra di un albergo l'omino in bianco e nero.

Lui voleva fotografare i carri armati in avvicinamento, e sulle prime, quando vide quello scemo con i sacchetti della spesa che gli stava rovinando l'inquadratura, si imbestialì. Poi sentì quel ragazzo che urlava a squarciagola contro il mostro di ferro. Vide quella pantomima e poi il carro bloccarsi, vinto... E capì che aveva in mano la foto del giorno. Anzi dell'anno. Anzi, di un'epoca.

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