Quell’ultimo premio a Fernanda dalla Milano che tanto amava

L a vidi, come tanti milanesi, molte volte, perché Fernanda Pivano non si negava mai, potendo, agli eventi che richiamavano la sua presenza. Andava e parlava, ricordava, sorrideva. A Milano Nanda c'era, nel senso che ci viveva come fosse stata milanese da sempre e nel senso che si regalava, come presenza e come memoria, come dimostra la Biblioteca creata da Fondazione Benetton che le venne intitolata nel 1998 per contenere le 10.000 pubblicazioni e l'archivio da mettere a disposizione del pubblico. Si poteva star certi che, se la salute glielo permetteva, almeno una volta al mese o forse più la si poteva vedere in una libreria ad una presentazione o in una serata in cui, immancabilmente, le veniva tributato qualche piccolo o grande onore. Perciò appunto la vidi molte volte. Ma solo durante una di queste posso dire di averle parlato un poco, di averla, in qualche modo vista davvero da vicino. Mi portò a casa sua Salvatore Niffoi, in una sera preziosissima, un anno fa, di ritorno dalla presentazione del suo romanzo Collodoro. Lo fece come una sorpresa, mi chiese: «Ma tu non l'hai mai conosciuta?» e quando risposi di no, mi disse «Allora ti porto su», come se fosse questione di vita o di morte, un'occasione che non poteva essere perduta per nulla al mondo.
Mi portò su, in questa casa grande dietro al tribunale, che sembrava piena e vuota insieme, che sapeva di trasloco imminente e di instabilità, con le carte e i libri e gli appunti scritti a mano sparsi dappertutto, perché lei scriveva a mano, sempre e comunque. Una casa da cui, dicono voci, ad una certa ora della notte si potevano sentire le note di una serenata molto speciale: Vinicio Capossela, uno dei suoi amici cantautori, si sgolava per lei, per farle sentire che era pensata, amata.
Nanda stava seduta, come ormai era condannata a fare negli ultimi anni, e però nel suo luogo preferito: dietro la scrivania, dove stava più o meno tutto il giorno, a prendere in mano libri di fotografie, vecchi album, romanzi di esordienti, bozze. Parlammo di Dori Ghezzi, cui aveva scritto una lettera affettuosissima due anni prima per ricordare «il suo dorato sposo», un ligure come lei, il caro Faber che la chiamava «la mia sorellina». E intanto che Nanda ricordava, vidi che attaccato accanto alla scrivania teneva ancora il numero di telefono del marito Ettore Sottsass, da poco scomparso, e mi commossi un poco, al ricordo di quella coppia indiavolata, che domò, oltre alla Beta generation italiana, che la Pivano considerò per lungo tempo come «sottocultura» anche la Milano degli anni contestatari. Una serata in suo onore, un premio a lei intitolato e consegnato a Erica Jong durante la prima serata della Milanesiana. Una cerimonia tra le innumerevoli a cui veniva invitata, eppure più commovente delle altre, perché la motivazione del premio era la motivazione cui Nanda ha dedicato la gran parte della sua vita: la letteratura americana.

Il prossimo tra i tanti lo avrà a novembre, grazie al Piccolo Teatro e a Giulio Casale, che al primo volume della sua biografia, Diari 1917-1973 - il secondo lo aveva consegnato a Bompiani da circa un mese, spegnendo le candeline dei suoi 92 anni compiuti il 17 luglio - ha dedicato uno spettacolo, La canzone di Nanda. E anche allora, senza farsi vedere, lei ci sarà.

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