Sia il capo del governo sia due importanti giornalisti hanno cercato di definire cosa sia la borghesia. Un’impresa davvero difficile, a meno di non voler ricorrere a battute come quella - esilarante - di Marcello Marchesi: «Borghesia: in medio stat virus».
Riferendosi al Corriere della Sera, Silvio Berlusconi si è dispiaciuto che «il primo giornale italiano sia passato dall’essere un foglio conservatore della buona borghesia italiana a un foglio di sinistra»: ergo, la «buona borghesia» sarebbe conservatrice. Massimo Gramellini gli ha risposto a muso duro sulla Stampa: «Perbenista e un po’ ipocrita, ma solida e laboriosa», la borghesia milanese sarebbe stata «spazzata via dall’arrivo di una classe di arrampicatori spregiudicati e volgari che il Corriere non lo leggono perché, essendo moderato, non è abbastanza truculento per i loro gusti». (Come se la borghesia torinese fosse tutt’altra cosa da quella milanese, caro Gramellini?) Ferruccio de Bortoli, direttore del giornale in questione, è stato più pacato, indicando nei suoi lettori «“Quell'Italia che ce la fa”, che lavora, produce, esporta, studia»: una definizione che piacerà senz’altro alla buona borghesia moderata.
In realtà, dicevo, definire la borghesia è una delle imprese più difficili che ci sia. Intanto, di quale borghesia si parla? Di quella delle speculazioni edilizie con discrezione? Di quella che porta i soldi all’estero ma con garbo? O di quella dei salotti buoni? O è quella che sta sempre dalla parte giusta, a seconda del vento? È la borghesia che appoggiava il fascismo prima e il comunismo poi? Mussolini, che era allo stesso tempo grande giornalista e capo del governo, da socialista combatté la borghesia, odiandola, da fascista continuò a odiarla utilizzandola, e ci mise quasi tutta la vita per approdare a una formula che considerò «definitiva»: «Il borghese è quella persona che sta bene ed è vile». È una definizione che oggi - paradossalmente - possono accettare solo dei tardosessantottini e dei no global ipereccitati, a dimostrazione di quanto sia mutevole il concetto di «borghesia».
La riprova è che la parola, oltre che il concetto, sono in disuso da molto tempo sia nel linguaggio corrente sia nelle analisi politiche e sociali. Da anni si preferisce parlare di «classe media», un po’ per accettazione supina dell’inglese middle class, molto perché la definizione di «borghese» aveva finito per diventare quasi un insulto, nell’uso dominante della vecchia sinistra: marchiata d’infamia, la parola è quasi scomparsa dal lessico in quanto «politicamente scorretta», più o meno come è capitato a «handicappato».
A voler vedere la faccenda in prospettiva storica, più che di polemica politica quotidiana, già nel Quattrocento si era formata un’«etica borghese» basata sul risparmio, l’industriosità e una vita familiare quieta e ordinata. Da allora la borghesia ha avuto fasi diverse nel tempo e nei luoghi, ma in definitiva è rimasta incardinata ai princìpì originari, sia dal punto di vista economico (un benessere superiore a quello della classi popolari) sia da quello del comportamento, che oggi si direbbe moderato o conservatore.
In definitiva, se si vuole intendere la borghesia per quello che è - un grande fenomeno storico/politico/economico - è fuori luogo monitorarla e reinterpretarla giorno per giorno, come se una grande parte della società cambiasse da un momento all’altro, al pari delle previsioni del tempo.
Se posso azzardare una mia definizione a caldo, borghese oggi è chi si può mettere a discutere di queste faccende, perché non ha la preoccupazione di tirare a campare.
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