Ritengo che nel commentare il testo degli Ossi di seppia il candidato avrebbe potuto collegare «il male del mondo» al famigerato «male di vivere» e rammentarsi anche del Foscolo, dove (I Sepolcri, v. 10) definisce «raminga» la propria vita. Ci sono parole chiave che un’analisi ravvicinata non deve trascurare meno probabile, oggi, un altro richiamo, ovvio per le scorse generazioni: al Carducci di Davanti San Guido, per i cipressi che gli parvero «giganti giovinetti», donde l’epiteto «giovinetta» che Montale assegna alla «palma».
Forse qualche studente si sarà sorpreso del classicismo che connota nella forma e nella materia il componimento propostogli, quando magari gli era stato insegnato che il Novecento è per lo più un’età anticlassica. E invece qui l’«ellera», i «corimbi», i «crucci estrosi»... Ma più difficile, a meno che dalla cattedra non vi sia stata un’apposita premessa, è cogliere - malgrado il maschile di «lontano» e di «raminghi» - lo spirito non di amore bensì di amicizia che la lirica sviluppa. La maiuscola K. della dedica è infatti l’iniziale del nome di un ballerino russo; Montale però lo spiegò molto tardi, aveva paura di venir scambiato «per un pederasta». Mancando questa notizia, il rischio dell’equivoco è forte: non mi stupirei che il candidato, scambiando l’aggettivo per un avverbio, avesse letto come disgiuntiva e non come vocativa la «o» che precede «lontano» e di conseguenza interpretato il maschile plurale «raminghi» come un riferimento collettivo, alla inquietudine comune a tanta parte dell’umanità.
Mi piacerebbe che qualcuno avesse fiutato l’impronta di una metrica «barbara» (si studia ancora nei licei un po’ di Carducci) ma coronata da rime, quasi tutte precise, lungo le tre strofe. Le quali strofe non accompagnano il lettore all’epilogo sintetico di altre liriche del libro, a una «sentenza» fulminea: il finale è appena un abbandonarsi alla dolcezza del ricordo dell’assente. Alla sua immagine si convengono prima il paragone con un quieto spettacolo di natura, poi il dubbio se in lui prevalga l’ingenuità o il dolore, che peraltro gli vale da prezioso portafortuna («talismano»).
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