Politica

Quella duna non spezzò il suo coraggio

Zelio Zucchi

L’avevo conosciuto al telefono, in una sera dell’inverno 1973-74: «Mi chiamo Ambrogio Fogar, sono in Nuova Zelanda, tappa del giro del mondo in solitario con la mia barca a vela. Potrei farle avere impressioni e fotografie, se interessano». I contatti telefonici continuarono, spesso con spirito di complicità. Così, nell’imminenza del suo arrivo a Castiglione della Pescaia, punto conclusivo del suo giro del mondo, feci finta di non sapere che a Gibilterra - alle «colonne d’Ercole», come mi aveva detto lui - sul «Surprise» era salita sua moglie Maria Teresa. E dimenticai che a Castiglione della Pescaia, da buon milanese, per festeggiare Sant’Ambrogio, era arrivato il 7 dicembre, dopo aver aspettato al largo una settimana.
Personaggio del giorno, gli fu offerto - o forse la proposta partì da lui - di scrivere un libro sulla sua avventura: «Mi sono impegnato a consegnarlo entro un mese, devo trovare uno che me lo scriva». Qualche tempo dopo il libro uscì e scatenò una marea di polemiche perché le pagine con il passaggio di Capo Horn, le più interessanti soprattutto da un punto di vista velico, erano state copiate pari pari da un altro libro. Contro Fogar si era scatenato tutto il mondo della vela, Ambrogio fu denunciato a processato per plagio, con ovvia condanna.
Poi - e siamo all’autunno del 1976 - Ambrogio pensò di affrontare i ghiacci dell’Antartide in barca con un amico, il suo coetaneo giornalista maremmano Mauro Mancini. Dopo pochi giorni i due furono dati per dispersi, infine l’annuncio: un mercantile greco li aveva trovati a 600 miglia da Buenos Aires, stremati ma vivi.
In seguito Ambrogio partì per un’avventura di 800 chilometri tra i ghiacci della Groenlandia. Sull’aereo che andava a prenderlo al Polo Nord - un go kart dei cieli - la mattina del 1° maggio 1983 c’ero anch’io: il fetore di Ambrogio e di Armaduk, che non si lavavano da un paio di mesi, era protagonista assoluto. «Per arrivare al Polo - si tuonò in Italia - Fogar ha adoperato l’aereo più che la slitta». Ambrogio mi spiegò: «Vero, ma solo in parte: con l’aereo avrò fatto un quarto del viaggio».
E rieccoci a casa, Fogar trova celebrità attraverso «Jonathan», fortunata rubrica televisiva. E nel 1992 anche la voglia del raid Parigi-Mosca-Dakar, quisquilia per un personaggio che sulla pelle ha le sue cicatrici.

Il destino che tante volte lo ha risparmiato lo colpisce servendosi di una banale duna nel deserto del Turkmenistan e gli toglie tutto, fuorché la voglia di vivere, che ha resistito per 13 anni, fino a l’altra notte.

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