Quella norma odiata da certe Procure ma difesa dalla Consulta

Ma davvero l’Italia non ha diritto a fare le sue leggi sull’ immigrazione? Per la Corte Costituzionale le cose non stanno esattamente così. Prima ancora della decisione di ieri della Corte di giustizia europea, a cercare di spazzare via le norme della aborrita legge Bossi-Fini e del «pacchetto sicurezza» del 2009, avevano provveduto quattro procuratori della Repubblica: tutti compatti nel ritenere il reato di clandestinità, introdotto dal Parlamento nel 2009, ormai cancellato dalle normative europee. I capi delle Procure di Milano, Roma, Firenze e Lecce hanno da tempo ordinato ai loro pubblici ministeri di non applicare più la legge del 2009, in quanto ormai sorpassata dalle leggi comunitarie che tutelano la dignità dei «migranti».
Che in realtà si possa così, sic et simpliciter, proclamare defunta una legge approvata dallo Stato italiano non è così pacifico. Ne dubita, per esempio, il procuratore di Torino Marcello Maddalena, secondo cui fino a quando non verrà cancellata - piaccia o on piaccia - la legge anti-clandestini va applicata. Ma anche dal pulpito più autorevole del nostro ordinamento, la Corte Costituzionale, è arrivata una decisione piuttosto chiara. In una sua recente sentenza, la 113 del 201 la Consulta ha detto esplicitamente che quando una norma italiana contrasta con quelle europee non per questo cessa di esistere. «Ove si profili un eventuale contrasto tra una norma interna e una della Convenzione europea dei diritti dell’uomo - si legge nella sentenza stesa dal giudice costituzionale Giuseppe Frigo - il giudice comune deve verificare anzitutto la praticabilità di una interpretazione della prima in senso conforme alla convenzione, e dove tale verifica dia esito negativo egli deve denunciare la rilevata incompatibilità, proponendo questione di legittimità costituzionale». Deve essere la Corte Costituzionale, insomma, ad armonizzare le norme italiane a quelle europee, e non la libera iniziativa di questo o quel magistrato.
Ma la Corte Costituzionale, nel corso dei primi mesi di quest’anno, è anche entrata nel merito dei provvedimenti varati dal governo Berlusconi in tema di immigrazione, esaminando i ricorsi presentati da giudici di pace soprattutto di piccoli centri come Missaglia, Orvieto, Vigevano eccetera. Questi magistrati avevano sommerso la Consulta di ricorsi accusando le norme anti-immigrati di «repressione indiscriminata dell'immigrazione irregolare», di provocare «un mutamento dell'atteggiamento dei cittadini in senso contrario al principio di solidarietà», di violare «i principi alla luce dei quali la condizione del migrante, anche “non regolare”, andrebbe guardata “con comprensione e benevolenza”, non trattandosi di un criminale, certo o possibile, ma di un essere umano che abbandona la propria terra alla ricerca di migliori condizioni di vita». E via di questo passo.


Ma le eccezioni dei giudici sono state, una dopo l’altra, respinte dalla Corte Costituzionale: «il bene protetto dalla norma è agevolmente identificabile nell'interesse dello Stato al controllo e alla gestione del flussi migratori»; «il legislatore protegge un complesso di interessi pubblici che possono essere compromessi da fenomeni di immigrazione incontrollata»; «le ragioni della solidarietà umana non possono essere affermate al di fuori di un corretto bilanciamento dei valori in gioco, rimesso alla discrezionalità del legislatore; in particolare, dette ragioni non sono di per sé in contrasto con le regole in materia di immigrazione previste in funzione di un ordinato flusso migratorio e di un'adeguata accoglienza degli stranieri».

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