Quella «sottile» differenza tra religione e prevaricazione

Bruno Fasani

Sono cresciuto vedendo le donne del mio paese andare in chiesa col capo coperto. Veli neri, stesi su pettinature castigate, e poi ripiegati, dopo le liturgie, dentro il cassetto in alto della stanza migliore. Sono diventato grande, vedendo suore dai veli multiformi e multicolori. Ho abbastanza anni per ricordare le suore di San Vincenzo, le Cappellone, quelle dal copricapo largo, simile al prototipo di un Concorde. Continuo a vedere in circolazione religiose dal capo coperto, anche se i tempi consentono stili più sobri e qualche vezzo di femminilità.
Registro i fatti e non ne sono per nulla turbato, perché nel simbolo del velo non ho mai intravisto il metalinguaggio di un maschilismo autoritario e dominante. Del resto la tradizione della velatio, così la chiamavano gli antichi, appartiene a una cultura arcaica, presente sia nel mondo biblico-giudaico, che in quello greco-romano e che la liturgia cristiana ha recepito integralmente.
Se è vero che il velo nasconde e rivela con discrezione, significando modestia, castità e onestà, è altrettanto vero che esso assume significati più profondi, quando sta ad indicare la nube luminosa di Dio e la sua gloriosa presenza. Presso gli ebrei, il matrimonio avveniva sotto la huppah, una specie di baldacchino, eretto vicino alla sinagoga, che esprimeva lo spazio morale in cui la coppia dava inizio alla propria avventura. Da questo rito e dal suo simbolismo sarebbero poi nati sia la velazione delle religiose, le nuove spose, sia tante abitudini che appartengono alla tradizione cattolica, come i baldacchini delle processioni o i veli omerali, usati dai preti durante le benedizioni con l’ostensorio. Fin qui la storia.
Perché dunque tanto clamore, in questi giorni, sul tema del velo imposto alle donne musulmane? L’onorevole Fini, in un suo recente intervento, riconduce la questione ad un principio di libertà religiosa, così come recita l’articolo 18 della Dichiarazione dei diritti universali dell’uomo, là dove si riconosce a tutti la possibilità di manifestare la propria religione come meglio si crede. Visto dalla sua prospettiva, il ragionamento non fa una piega.
Ma è a questo punto che dobbiamo porci una domanda provocatoria: c’è differenza tra il velo di una suora e quello di una donna musulmana? È da questa risposta che emerge la complessità del problema ed anche l’esito di risposte diversificate. In definitiva, decidere di coprirsi il capo è una scelta libera, che va a intercettare una precisa volontà della donna, o nasconde piuttosto un’imposizione di tipo maschilista, che consegna la donna agli spazi della subordinazione e dell’emarginazione sociale e culturale? Personalmente non trovo risposte definitive, anche se ritengo che l’Islam, su questi temi, debba procedere ad una revisione critica dei testi ma anche delle abitudini, chiedendosi quale sia il significato del velo al tempo di internet e a quali condizioni esso esprima una scelta libera della donna. In definitiva, dopo 1400 anni da Maometto, c’è spazio per una interpretazione meno rigorosa sull’uso del velo come simbolo religioso, in sintonia con il modificarsi dei costumi? Dietro questa domanda si nasconde ovviamente il problema dell’inculturazione della fede e, cioè, l’importanza di adattare il messaggio originario al modificarsi dei tempi. Questo è l’unico e autentico senso della tradizione, contro il pericolo di un fondamentalismo incapace di misurarsi con la storia.
Un secondo interrogativo porta più crudamente a valutare l’arroganza maschilista, che spesso sta dietro all’obbligo di questo simbolo. Sappiamo bene che, dall’imposizione del bourqa, fino a quella di un velo più sobrio da parte dei gruppi più moderati, corre il filo rosso di una identica prescrizione di matrice maschile. È su questa frontiera che il tema del velo acquista tutta la sua problematicità, fino a coinvolgere nel dibattito coloro che appartengono ad altre religioni e lo stesso legislatore. Fino a che punto esso è simbolo religioso e quando diventa invece un segno di prevaricazione? Ecco la risposta che ci si attende dal mondo islamico.

Una risposta capace di dissipare i dubbi del mondo occidentale, legittimamente allarmato dai troppi segnali di violenza e di ingiustizia subiti dalla donna, nel nome di Allah.

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