Quelle lacrime (di coccodrillo) dell’assassino della contessa

Dalla confessione di un assassino. «Mi sono voluto togliere un peso». «Ho pensato spesso di andare alla polizia, ma ogni volta che nasceva un figlio mi bloccavo». «Ho chiamato una mia figlia Alberica: un modo per discolparmi, per scusarmi di quello che ho fatto». «Chiedo perdono a tutti gli italiani, adesso finalmente mi sento meglio».
Per non confonderci, per non perdere il senso: questo filippino, nel 1991, dopo una sgridata non esitò ad uccidere una giovane donna di 42 anni. Abbiamo imparato a conoscere questa storia infinita come il mistero dell’Olgiata, tenebroso tormentone e rompicapo giudiziario che ha fatto ammattire generazioni di investigatori, assieme alle altre storie tristemente note come rapimento Orlandi e delitto di via Poma, tutte avvolte nelle stesse atmosfere romane.
Grazie alla rivoluzione del Dna, grazie alla giustizia che funziona - esiste, esiste ancora -, almeno questo insormontabile giallo è finalmente risolto. Come nei film più scontati, il colpevole è il maggiordomo. Complimenti agli investigatori, dovremmo limitarci a dire. Invece subito dopo la soluzione sembra di vedere tutto un altro film. Come in un Delitto e castigo velocemente riveduto e corretto, ci spadellano l’immagine del pover’uomo oppresso dal peso del rimorso, un peso sopportato chissà come - per la cronaca: mettendo su famiglia, facendo figli, cambiando ottimi posti di lavoro -, e alla fine inevitabilmente schiacciato sotto cotanto senso di colpa.
Allora, sempre per non confonderci, sempre per non perdere il senso: questo signore avrà pure vissuto sotto il tetro peso di un insostenibile rimorso, avrà pure pensato qualche volta di confessare, avrà pure salutato l’epilogo con indicibile senso di liberazione, ma comunque rimane agli atti un dettaglio decisivo, che nessuno può sbrigativamente dimenticare: dalla Polizia, non ci è andato spontaneamente. Ce l’hanno portato di peso, dopo averlo tirato fuori per i capelli dal comodo nascondiglio della sua tranquilla esistenza. Per vent’anni ha tenuto riposto nell’angolo più cupo e più remoto della coscienza l’orrore del delitto, e niente lascia pensare che senza la rivoluzione del Dna e senza la cocciutaggine della giustizia si sarebbe fatto avanti nei prossimi giorni, nei prossimi mesi, nei prossimi anni. Di più. Sempre in questi vent’anni di silenzio, il maggiordomo ha assistito impassibile alla feroce sofferenza di una famiglia, prima colpita dal lutto, poi - ancora peggio - dalle dicerie e dai sospetti più truci.
Eppure. Eppure, con la solita fretta facilona e sgangherata che riserviamo ai casi della vita più dolorosi, adesso siamo tutti qui a ciglio umido, o quasi, per lo struggente epilogo umano del filippino pentito, finalmente libero dal rimorso insostenibile. Si leggono e si ascoltano cose altissime. Tra le tante: «La confessione di Winston è una liberazione: cos’altro voleva, l’assassino, se non essere scoperto?» (Giorgio Montefoschi, Corriere). Sarà volgare, ma davanti alla tenuta emotiva di questi vent’anni, siamo in molti a pensare che il defilato Winston volesse soltanto restare a piede libero altri venti, trenta, quarant’anni. Oppure ci vogliono convincere che la Polizia è arrivata - alle volte, le combinazioni - proprio cinque minuti prima di una sua spontanea costituzione presso il più vicino commissariato?
La pietà è una gran cosa. Va armeggiata con tanta cura. Adesso, in questi primi momenti, va riservata ancora alla povera signora Alberica, spietatamente strangolata nel fiore degli anni, e soprattutto ai suoi familiari, costretti a sorbirsi un supplemento di sofferenze lungo vent’anni. Ti hanno ammazzato barbaramente la moglie e ti sospettano pure d’averla uccisa: una volta, dopo esserci così bonariamente immedesimati nel travaglio interiore dell’assassino, potremmo provare ad immedesimarci anche nell’incubo di quel marito e di quei parenti…
Quanto a Winston, il filippino incastatrato dal Dna, c’è tutto il tempo. Certo non c’è bisogno di linciarlo o di appenderlo a testa in giù.

Senza averli mai cercati, avrà comunque il giusto processo e la giusta pena. Poi, strada facendo, espiando l’orrenda colpa, arriverà naturalmente all’approdo che umanamente gli va augurato: la pace e il perdono. Ma dopo, con calma, senza fretta.

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