Proviamo a immaginare la carta di identità di un greco antico. Nascendo, il singolo si integrava in una griglia che (come ad Atene), lo rassicurava e lo inorgogliva di un’appartenenza, oppure lo marchiava (a Sparta) come rotellina di un ingranaggio statale. Se si era liberi (da schiavi non si aveva diritto a identità), si entrava nella famiglia (se gentilizia, ci si fregiava del patronimico), nel clan del parentado, nel demo (il quartiere, urbano o del contado), nella fratria (associazione di mutuo soccorso), nella tribù (distretto territoriale amministrativo), nell’ethnos (tre patriarchi, Ione, Doro, Eolo, discendenti dei sopravvissuti al diluvio, Deucalione e Pirra, erano alla base delle stirpi), ma soprattutto nella polis, la città, che nella politeia, la “costituzione”, aveva il suo magnifico software, il funzionamento spirituale trasmesso nei secoli, con gli aggiornamenti. Solo se si era filosofi di nicchia (Stoici, per esempio), si rinunciava a questo groviglio di radici, proclamandosi apolidi, cosmopoliti, puri atomi del genere umano.
La quinta puntata della Storia Einaudi dei Greci e dei Romani, dal titolo L’identità dei Greci, che domani sarà in edicola con Il Giornale, ci mette a parte, con ricchi dati, dei segreti di questo labirintico universo ellenico, illustrando gli spazi, i modi, i problemi della convivenza, un contesto irrinunciabile per capire e gustare anche i capolavori della letteratura classica. Tra i titoli più ambiti dell’ideale documento di identità c’era autoctono. Significava non solo «nato in quella terra», ma perfino «dalla terra». Gli Ateniesi erano tra i pochi che potevano permettersi questo fregio. Il capostipite, Cècrope, era sgorgato dal suolo. Le balie ne raccontavano il mito ai piccoli, come ninna nanna; la sua tomba ne mostrava la figura di uomo-serpente, nato per strisciare sull’acròpoli, ma anche per assorbire dalla pietra materna la sapienza del legislatore, dell’inventore di alfabeti, oltre che di regole cultuali per i matrimoni e i riti funerari. Era uno dei tanti bollini di qualità per proclamarsi ateniesi. L’eccellenza era nell’aria. Chi era discepolo ad Atene, diventava maestro altrove. Lì c’era la “scuola dell’Ellade”.
Gli studi dimostrano che gli “altri” (soprattutto i nemici storici, i persiani) diventavano “barbari” per propaganda bellica, quando minacciavano la Grecia e allora le città-stato si coalizzavano, si sentivano, per opposizione, panelleniche. C’era osmosi di commercio e cultura tra i mondi. Creso, sovrano forestiero, di Lidia, era il cliente più affezionato della Sibilla delfica (un simbolo della grecità); Solone e Platone cercavano consulenze in Egitto. Ospitalità, giustizia, competizione sportiva (Olimpia, regina degli agoni), le grandi tradizioni religiose, anche con i rivoli carsici dei culti misterici o d’importazione orientale, lavoravano da collante ellenico. Perfino la guerra sottostava a certe regole razionali d’ingaggio che ne facevano, paradossalmente, un congegno d’identità.
Non mancavano le peculiarità. Sul terreno, si scontravano gli opliti, corazze di bronzo e uno scudo che copriva non solo il tuo fianco, ma quello del tuo compagno, per solidità di falange e di patria. Gli Spartani, però, erano più opliti degli altri. Mantelli rossi, scudi a specchio, passo martellato dal flauto, che non dava scampo. Si vinceva restando padroni del campo. In uno scontro rimasero in piedi uno Spartano e due Argivi. Ma costoro corsero a casa, per annunciare la (presunta) vittoria. Fu Sparta a innalzare il “trofeo”, segno di superiorità. C’erano idee chiare, allora, su come dovevano andare le cose.
Sul mare imperava la trireme, un rostro metallico che filava a pelo d’acqua spinto da 170 rematori professionisti.
Ma le unità da battaglia ateniesi erano principesche. Ai tempi d’oro di Pericle, centinaia di equipaggi si addestravano in mare per otto mesi filati, per non perdere smalto La brutalità dell’attacco diventava arte, armonia.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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