Ma quelle scuse avrebbero deluso anche la Fallaci

Francesco Damato

È stato solo illusorio il «passaggio di consegne» che alcuni hanno intravisto, sia pure sul filo del paradosso, nella coincidenza verificatasi nella scorsa settimana tra l’agonia di Oriana Fallaci, che moriva in una clinica di Firenze, e il discorso pronunciato all’Università di Ratisbona dal Papa. Il quale ha fatto infuriare i musulmani di ogni grado, integralisti e moderati, per avere osato citare uno degli ultimi imperatori di Bisanzio alle prese drammatiche con la diffusione della fede islamica consentita da Maometto anche «attraverso la spada». La povera Oriana, se avesse potuto ancora seguire ciò che accadeva fuori della stanza dove stava spegnendosi, se ne sarebbe probabilmente inorgoglita. Il Papa si sarebbe confermato ai suoi occhi come lei lo aveva immaginato sin dal primo momento della sua elezione, e come gli chiese di continuare ad essere nell’incontro con lui che da «atea devota» cercò e ottenne nell’estate dell’anno scorso: capace di «dire sempre pane al pane e vino al vino».
Certamente non si trattava dello stesso pane e dello stesso vino che Oriana aveva coraggiosamente offerto al suo pubblico con articoli, saggi, libri e conferenze dopo avere visto abbattere dai terroristi musulmani le torri gemelle di New York. Per quanto coraggioso, il Papa non avrebbe potuto spingersi tanto in là. Ma gli insulti e le minacce rovesciatesi sul Pontefice per quel richiamo a Manuele II Paleologo, che cercava disperatamente di salvare Costantinopoli dalle mire dei musulmani, avrebbero ricordato ad Oriana il trattamento riservato alla rabbia e all’orgoglio da lei gridati di fronte a quel mostro chiamato Eurabia, che temeva più ancora del cancro cresciuto nel suo corpo come un alieno. Di quel simbolico «passaggio di consegne» tra la Fallaci e il Papa ha scritto, fra gli altri, Mattia Feltri sulla Stampa di lunedì scorso mostrando alla fine quello che mi è apparso, spero a torto, un certo rammarico per non aver potuto lei ascoltare il giorno prima Benedetto XVI. Il quale aveva espresso «vivo rammarico», peraltro dallo stesso palazzo di Castelgandolfo dove l’aveva ricevuta l’anno scorso, per il fraintendimento al quale si era prestato il suo richiamo ad «un testo medievale che non esprime in nessun modo il mio pensiero personale», aveva assicurato il Pontefice.
Lasciatemi dire con tutta franchezza che, diversamente dal bravo Mattia, io non sono per niente rammaricato del fatto che Oriana, sepolta proprio in quelle ore, non abbia fatto in tempo ad ascoltare le parole con le quali il Papa ha cercato di fermare l’indegna gazzarra scatenatasi contro di lui. Alla testa della quale si è messa la solita Al Qaida promettendo di «conquistare Roma come promesso dal profeta». Sono contento che la morte le abbia risparmiato quella che sarebbe stata probabilmente per lei l’ultima, più dolorosa delusione. Ne sarebbe forse seguita un’invettiva delle sue, che neppure il suo amico monsignor Rino Fisichella sarebbe riuscito a trattenere. Con altrettanta franchezza lasciatemi dire anche che trovo un po’ stucchevole, anzi ipocrita, il dibattito che si è aperto tra gli atei più o meno devoti sull’interpretazione da dare al «rammarico» del Papa.

Che secondo alcuni non dovrebbe essere scambiato per le «scuse» reclamate dai suoi avversari e critici, in Oriente e purtroppo anche in Occidente, compresi certi credenti che si qualificano «adulti». Rispetto ai quali gli altri dovrebbero sentirsi infantili, magari matti, come dice Romano Prodi di chi osa rivolgergli domande sgradite sul maledetto affare Telecom in cui è inciampato.

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