Di prostitute famose, nella storia si è sempre parlato. Sono anche in troppi a ricordare che nei verbali della polizia del secolo borghese, sessualmente represso eppure invaso da bordelli e passeggiatrici fino alla Prima Guerra Mondiale, veniva registrata spesso Sarah Bernhardt, l’impareggiabile attrice, e la sua consuetudine al meretricio. Scendeva in strada per arrotondare, viste le mani bucate che la portavano a smodate e insostenibili spese, e aveva tariffe elevatissime, naturalmente: per «un’adorazione intima» si andava dai mille ai millecinquecento franchi, incasso giustificato dal principio secondo cui per l’interprete l’amore si riduce a due colpi: uno di reni e uno di spugna. E spesso si citano le abitudini di Mata Hari non soltanto come danzatrice esotica «giavanese» e cortigiana d’alto bordo con secondi e tripli fini occulti, bensì per la sua propensione a vendersi nelle case chiuse. Inclinazione che fu anche che di Kiki de Montparnasse la quale, prima di divenire icona degli anni folli come modella dei più grandi pittori, racimolava spiccioli mostrando il senso ai passanti per pochi franchi. In una foto con Man Ray, nell’epoca già dorata, si diverte a rifare il gesto, posando nell’attitudine delle prostitute di Villefranche: «Questo vi costerà un franco o due!», la si sentiva gridare allegra mentre sollevava la camicetta.
Anche di prostitute del Novecento si è parlato a lungo. Basti ricordare la Chicago che resse il moccolo a May Duignan, la «regina dei bassifondi» meglio nota come Chicago May, splendida irlandese dalle pelle diafana e la chioma fulva, compagna di Eddie Guerin che rapinò l’American Express, ma anche sgualdrina capace di rubare a morsi i brillanti dalle spille da cravatta. Femmina criminale che si meritò una biografia redatta da una sua connazionale, Nuala O’Faolain, La vera storia di Chicago May (Guanda). Quanto al Ventunesimo secolo, non c’è bisogno di sottolineare l’insolito stupore prude di fronte all’esistenza di signorine disposte al commercio del corpo. Ma di letterati e prostitute, e di quanto a bordelli, donnine, marciapiedi, marchette e sesso a pagamento debbano grandi e mediocri titoli della narrativa degli ultimi due secoli, grazie all’abitudine che i loro autori avevano di frequentarne i favori, si è parlato ancora troppo poco. Perché intellò e carne da trattativa, se si toccano, devono farlo solo attraverso le mediate pagine dell’arte e delle note biografiche degli scrittori di fama in cui si ricordano gli incontri nelle maison close.
Ecco perché è particolarmente godibile il contributo che Giuseppe Scaraffia, nel suo Le signore della notte. Storie di prostitute, artisti e scrittori (appena pubblicato per Mondadori, pagg. 272, euro 19) dà alla compilazione di un elenco non soltanto di donnine lascive, ma anche di maschi votati all’arte che hanno goduto dei loro favori e di quell’atmosfera «di dolcezza e umanità» (come la definisce Mario Soldati in una citazione messa a esergo del volume) delle «case». Vuotiamo subito qui almeno parte di un sacco pienissimo, citando soltanto alcuni dei cognomi, di cui Scaraffia racconta aneddoti e storie gustosi: Corrado Alvaro e le sue piccole prostitute di Istanbul con le labbra che bruciano; Victor Hugo, che segnava in codice i favori ottenuti: una «n» significava che la ragazza si era spogliata interamente; a Gustave Flaubert bastava un sentore per aumentare il piacere e se lei non aveva avuto tempo di lavarsi, il profumo gli arriva «al cuore»; negli anni ’50 Graham Greene, all’Avana, si vede offrire, oltre alle droghe, combinazioni a tre di ogni genere, e ne sperimenta «la maggior parte»; Picasso perse la verginità a 15 anni in un bordello, Prévert a 13 «con una donna infetta», Simenon vendette l’orologio del padre per una prostituta nera che gli aveva tolto il sonno, Mario Soldati perse l’occasione della sua marchetta da minorenne per timidezza e ubriachezza, ma da militare aggredì «il sospirato traguardo» in un postribolo di Novara, Evelyn Waugh fece la sua prima esperienza in una casa chiusa di Marsiglia e Buñuel fece la sua iniziazione a pagamento perché «l’alternativa nella Spagna dell’epoca era il matrimonio».
E la lista continua, confortata da una ricca bibliografia e da un inserto fotografico che rende egregiamente quel clima di «carni rosee e sfatte, veli, maschere di donne» che trasforma la banale lussuria in vertigine incantevole: «A diciott’anni - scriveva Gesualdo Bufalino, come ricorda Scaraffia nel suo libro -. Si entrava per la prima volta in un bordello ed era per i più una cresima lieta, come prendere gli ordini di un sacerdozio profano».
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