«Malumore e senso di frustrazione» per la gestione dell’eredità Colleoni da parte della base di An. Il virgolettato non proviene dalla cronache delle polemiche politiche di questi ultimi giorni. È preso, pari pari, da una lettera che l’avvocato Marco Di Andrea, ora esponente della Destra di Storace (e autore dell’esposto-denuncia che ha portato all’attenzione dei Pm romani l’affaire della casa di Montecarlo rivelato dal Giornale) in tempi non sospetti scrisse all’indirizzo dell’allora segretario amministrativo del partito, Francesco Pontone, e per conoscenza all’allora presidente di An, Gianfranco Fini.
I tempi non sospetti sono quelli del lontano luglio 2006 quando ancora l’appartamento di Montecarlo è lontano dall’essere alienato a società off-shore. L’allora presidente del gruppo consiliare di An a Monterotondo (città dove la contessa Colleoni viveva e partecipava fattivamente all’attività politica) ben quattro anni fa non si limitava a mugugnare per il modo in cui Alleanza nazionale gestiva quel patrimonio ricevuto in eredità dalla signorina Anna Maria Colleoni, ma prendeva carta e penna per portare i dubbi all’attenzione dei vertici. La missiva che Di Andrea spedì con raccomandata in via della Scrofa (e che non ebbe mai risposta) poneva ovviamente questioni politiche, e non sollevava alcun dubbio giudiziario, considerato che le operazioni di alienazione dei fondi agricoli divenuti edificabili a Monterotondo avvennero regolarmente.
La base di An sul territorio del centro vicino Roma, come potete leggere, non aveva gradito di esser stata tagliata fuori da ogni decisione sulla destinazione di quei beni. Non perché volesse lucrarci, ma perché – nell’ottica del partito - sperava che l’edificazione su quei terreni fosse affidata a costruttori vicini ad An, e invece nella lettera si segnala come i suoli e gli immobili siano finiti «in mano a “professionisti della palazzina” e ad architetti-progettisti addirittura organici alla federazione provinciale dei Ds». Mentre per la sede di An a Monterotondo si doveva ricorrere ad acquistare beni da terzi, invece di utilizzare gli immobili ereditati. E poi c’era il progetto elaborato da chi la generosa Colleoni aveva conosciuto, che voleva dar vita a una coop edilizia di destra: costruzioni popolari ma «modello», creazione di un centro polivalente e, infine, di un parco giochi intestato alla discendente, un desiderio espresso dalla stessa Colleoni – che non aveva figli – quand’era ancora in vita.
Sarebbe stato un modo per rispettare l’onere della «buona battaglia», o almeno per ricalcare una volontà della signorina. An invece preferì massimizzare il profitto, e vendere i terreni a circa il 30 per cento in più dell’offerta presentata dall’imprenditore «d’area». Scelta forse cinica, ma rispettabile.
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