La Quercia perde i pezzi Rossi lascia e accusa: «Timidi sulle pensioni»

L’economista vicino a D’Alema attacca: «Mi sento a disagio per le posizioni dei Ds». Gelo del segretario: non capisco

da Roma

L’addio di Nicola Rossi alla Quercia è una bomba che deflagra con fragore dentro i ds, nell’Ulivo e ai piedi del governo Prodi.
Il premier fa finta di nulla, lascia - ben lieto - che la grana ricada su Fassino e D’Alema e sugli equilibri interni al loro partito. Ma la dura denuncia del professor Rossi, economista di fama laureato alla London School of economics e riformista doc, sul fallimento della spinta alle riforme promesse dal centrosinistra non può non essere andata a segno. E che bruci anche a Prodi lo si intuisce dalla reazione stizzita di uno dei suoi «ventriloqui», il dl Franco Monaco: «Giudizi ingenerosi, il governo è riformatore e fa sintesi tra innovazione e solidarietà». Poi l’anatema: su Rossi «fa breccia il mito e il dogma del liberismo», altro che riformismo.
La lettera con cui il parlamentare annuncia a Fassino che non rinnoverà l’iscrizione ai ds, con i quali ormai c’è «un’evidente distanza» perché spesso «le mie opinioni sono fonte di visibile imbarazzo per la Quercia» e «in non poche situazioni sono io a sentirmi a disagio per le posizioni dei ds», è stata anticipata ieri dal Corriere della Sera: «Sul terreno riformista la sinistra ha esaurito tutte le energie», è l’amara constatazione del professore. Il cui nome, quando era consigliere economico di D’Alema a Palazzo Chigi, fu in ballottaggio fino all’ultimo con quello di Massimo D’Antona come obiettivo delle Brigate Rosse. Da mesi, Rossi non nascondeva le sue critiche alla politica economica del governo, alla finanziaria di Padoa-Schioppa, al rapido impantanarsi dell’annunciata «fase due», alla crescente timidezza su una riforma indispensabile come quella delle pensioni. E proprio ieri, sulla Stampa, lo aveva ribadito con nettezza: «Serve una riforma vera, che guardi lontano, gli aggiustamenti non bastano. Se il governo non è in condizioni di fare un intervento degno di questo nome è meglio che lasci perdere. E alla luce delle ultime dichiarazioni di Prodi mi pare proprio che le condizioni non ci siano».
La replica di Piero Fassino ha un sapore tutto difensivo: «I ds non hanno mai abbandonato il loro profilo riformista», «non vedo davvero ragioni per cui Rossi debba lasciare il nostro partito». Certo «la politica delle riforme deve fare i conti con ostacoli e resistenze», che però non sono certo «addebitabili ai ds». Nella Quercia, già scossa dalla battaglia congressuale e dalle divisioni sul futuro Partito democratico, si scatena però un terremoto. Intervengono tutti, da un capo all’altro del partito, per commentare quell’addio, dalla minoranza per sottolinearne la portata dirompente e dalla maggioranza per cercare di arginarne i danni. Parlano soprattutto molti «dalemiani», nelle cui file, per il rapporto di amicizia che ha legato il professore all’ex premier, Rossi è stato spesso annoverato. E il malessere dei «riformisti» sconfitti trapela da molte voci. La capogruppo dell’Ulivo Anna Finocchiaro ammette: «È necessario che ci interroghiamo sul fatto che una delle persone più acute del nostro riformismo abbia preso una decisione così radicale: Rossi pone un problema che riguarda tutto il centrosinistra, e soprattutto l’Ulivo». Nicola Latorre si difende: «I ds non hanno mai rinunciato al profilo riformista», giura. «Veniamo da mesi complessi - sospira il relatore della finanziaria Michele Ventura - e posso capire che Nicola abbia potuto pensare che siano prevalse altre posizioni.

Ma le sue sono uno stimolo necessario, vorrei invitarlo ad aspettare un tempo medio per vedere il cammino delle riforme». Duro il presidente della commissione Esteri Umberto Ranieri: «Comprendo le sue ragioni, i ds sappiano riflettere sui problemi politici e di funzionamento del partito che hanno condotto Nicola Rossi a questa decisione».

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