Fabrizio Ravoni
da Roma
Sotto Finanziaria può anche succedere che un viceministro bocci gli emendamenti ds (sostenuti dal suo segretario). Che un ministro ds sia contrario alla posizione del viceministro. Che l’organo ufficioso di una corrente dei Ds definisca «dilettantesco» l’atteggiamento della maggioranza; quindi, anche quello dei Ds. Può anche succedere che un ministro tecnico all’Economia dica che «non ha nulla da commentare sull’argomento». Che un presidente del Consiglio bocci l’idea. E che, alla fine, arrivi un emendamento in cui scompare l’aliquota «incriminata», quella del 45% oltre i 150 mila euro; e in cui si rivedono detrazioni Irpef e assegni familiari in modo da non danneggiare i redditi fra 30 e 45 mila euro.
È la fotografia di quel che è avvenuto ieri sull’Irpef. L’altro giorno, Marina Sereni, a nome dei Ds, presenta un emendamento alla finanziaria che prevede l’introduzione di una nuova aliquota Irpef del 45% a carico di chi ha redditi superiori ai 150mila euro. Il maggior gettito dovrebbe servire - prevede l’emendamento con l’avallo di Piero Fassino - per recuperare risorse da destinare in maggiori detrazioni per i pensionati oltre i 75 anni.
Contro il progetto, però, si scaglia Vincenzo Visco. Il viceministro dell’Economia annuncia che il governo presenterà un emendamento per la rimodulazione (cioè, la correzione) delle aliquote Irpef, così come sono previste dalla Finanziaria. Ma l’emendamento non conterrà l’introduzione di una nuova aliquota al 45%, così come chiesto dai Ds a Montecitorio. E per dar forza alla volontà del ministero dell’Economia di non seguire la Quercia, scendono in campo anche altri tre sottosegretari allo stesso ministero: Mario Lettieri, Roberto Pinza (viceministro) e Nicola Sartor. Tutt’e tre contrari all’Irpef al 45%. Il titolare del dicastero, Tommaso Padoa-Schioppa, da Londra, precisa che sull’argomento «non ho nulla da dire».
A chiudere il dibattito ci pensa Prodi. «Con l’Irpef al 45% il governo non c’entra - dice il presidente del Consiglio - non era nei programmi e non c’è». Però sull’argomento esce allo scoperto Cesare Damiano. Per il ministro ds del Lavoro, già polemico con Bersani sulle pensioni, portare al 45% l’aliquota sopra i 150mila euro è una «buona idea». Il fatto che Damiano esca così allo scoperto al fianco dei Ds della Camera e vada contro Visco, rafforza l’idea che l’emendamento del gruppo sia stato precedentemente benedetto dal Botteghino.
E qui s’inseriscono i Comunisti italiani. In un emendamento alla Finanziaria chiedono che l’aliquota massima dell’Irpef non sia più il 43%, non sia il 45% chiesto dai Ds, ma salga al 47% per i redditi sopra i 150mila euro. E chiedono anche l’introduzione della cosiddetta «clausola di salvaguardia»: principio in base al quale un contribuente non paga più tasse rispetto a quelle versate l’anno precedente. L’introduzione di questo principio di civiltà costerebbe alle casse dello Stato circa un miliardo e mezzo di euro di minor gettito. Insomma, rischierebbe di far saltare i conti. Di fronte a queste cifre, i Ds si sono limitati ad alzare l’aliquota massima per concedere detrazioni per i pensionati oltre i 75 anni.
Alla fine l’emendamento «vero» arriva. Non vi compare l’aliquota del 45%. Prevede invece una complessa rimodulazione delle detrazioni secondo la quale il risparmio fiscale arriverebbe - il condizionale è obbligato - a 45mila euro di reddito sul lavoro dipendente (con coniuge e un figlio), a 40mila per il dipendente con coniuge a carico ma senza figli, a 38mila euro per il dipendente single, a 35mila euro per i pensionati, a 31mila euro per i lavoratori autonomi (32mila se con coniuge a carico, e - non si capisce con quale ratio, 29mila se a carico c’è anche un figlio). L’emendamento non contiene invece la clausola di salvaguardia, che avrebbe permesso ai contribuenti fino a 40 mila euro danneggiati dalla riforma fiscale di calcolare la tassazione con le norme precedenti.
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