Questa foto orrenda racconta la verità

Caro papà John,
scusa se m’insinuo nel tuo dolore, scusa se nel contraddirti t’infliggo, da lontano altre pene. Ho davanti la foto di Joshua Bernard, di tuo figlio morente. La guardo. Non so staccarmene. Immagino il suo terrore di un attimo prima, quando quel razzo gli esplode addosso. La sua disperazione quando in una fitta di dolore china la testa, guarda le proprie gambe maciullate. Mentre comprende che solo la morte gli risparmierà lo spettacolo del proprio corpo straziato. Mentre incomincia a desiderarla. Rapida, pietosa, liberatrice. Immagino i sussulti del petto, l’arsura violacea delle labbra, il terrore del grande passo, il grande freddo nell’afa di quel boschetto di melograni, di quel dannato angolo d’Afghanistan dove si consumano gli ultimi scampoli dei suoi 21 anni. Lo so, papà John fa male a me. Immaginiamo a te. Lasciami spiegare. La prima volta che misi piede in Afghanistan avevo 23 anni. L’ultima volta è stato due settimane fa con i paracadutisti italiani.
In 26 anni di lavoro e passione ho visitato i campi di battaglia di più di trenta guerre. Come Julie Jacobson, la fotografa di Associated Press autrice di quell’ultima, maledetta foto ho seguito i marines nell’inferno di Falluja e in quello di Helmand. Da 23 anni ogni qualvolta incontro un ferito o un morto sul campo di battaglia mi fermo, lo guardo. In faccia o in quel che ne resta. Come ora, davanti a tuo figlio. Avvicino lo sguardo, m’immedesimo in lui, mi sforzo di immaginarne il dolore, gli ultimi pensieri. Non sono un voyeur della sofferenza. Sono solo un giornalista convinto che distogliere lo sguardo dai nostri fantasmi non aiuti a liberarcene. Davanti a Joshua rivivo la stessa terrificante paura trasmessami da altri brandelli umani, l’angoscia di condividere un giorno quel loro ultimo attimo. Anche l’immagine di Joshua guardata così a lungo ritornerà nelle mie notti. Si unirà ad altri fantasmi. Tornerà a svegliarmi assieme alle loro urla, all’odore nauseabondo di altri mattatoi. Ma so una cosa. Potrò continuare a raccontare l’orrore e l’inesorabile necessità di sfide difficili come una guerra solo fino a quando avrò la forza di guardarne in faccia l’orrore, solo fino a quando riuscirò a interiorizzarlo e sopportarlo. Chi non fa il mio lavoro non è tenuto a queste scelte, ma la foto di tuo figlio credimi è oggi importante, necessaria, irrinunciabile. Come la morte del miliziano di Capa, autentica o montata che fosse, nella guerra di Spagna. Come l’immagine dell’elicotterista agonizzante a bordo di Yankee Papa 13 in Vietnam nell’aprile 1965. Come, sempre in Vietnam, quella del soldato nero ferito, ma pronto a soccorrere il compagno bianco morente. Per qualcuno la guerra d’Afghanistan è il Vietnam d’Obama. Forse è qualcosa di più. Per sette anni la sfida afghana è stata dimenticata, trascurata, obnubilata da altri impegni. Ora non solo la Casa Bianca, ma tutta la Nato, tutto l’Occidente, Italia ed Europa comprese, sanno che quella sfida è dura, difficile, ma assolutamente improrogabile. Riporre in un cassetto la foto di Joshua può aiutarci a dormire sonni tranquilli, a consumare cene distese, a discettare con soave disinvoltura dei nostri impegni o disimpegni internazionali. Non ci aiuterà, però, a trovare la forza per essere all’altezza della sfida afghana.
Caro papà John tu, come tuo figlio, sei stato marines e ricorderai forse il discorso del colonnello Kurtz nel film Apocalypse Now. Parla di un villaggio dove i soldati americani vaccinano contro la poliomielite centinaia di bambini. Racconta la rappresaglia vietcong. Descrive una pila di centinaia di minuscole braccia mozzate. Riferisce la terribile disperazione di un Kurtz consapevole, all’improvviso, di combattere un nemico superiore perché capace di sopportare l’orrore. «E allora realizzai che erano più forti, perché potevano continuare a non considerarsi mostri. Erano semplicemente uomini... quadri addestrati».
Non ti chiedo papà John una simile visione cinica dell’orrore, ti chiedo solo di girar lo sguardo sull’immagine di quell’elettore afghano a cui una mano talebana ha mozzato naso e orecchie per punirlo d’aver votato. Un Occidente incapace di guardare in faccia la morte di tuo figlio è pronto, mi chiedo, ti chiedo, a combattere quell’orrore? Per Robert Gates il segretario alla Difesa a cui ti sei appellato la decisione di pubblicare quella foto denota «una totale mancanza di compassione». Un quotidiano del West Virginia risponde che «troppo spesso gli americani guardano soltanto i bilanci sulle perdite» diffusi dal suo dipartimento. «Dobbiamo incominciare a capire che dietro a quei numeri ci sono uomini e donne pronti all’estremo sacrificio per tutti noi». Quelle righe accanto alla foto di tuo figlio mi richiamano alla mente le parole dei paracadutisti italiani della 6ª compagnia Grifi con cui ad agosto ho vissuto nella base afghana di Bala Baluk. Sono ragazzi italiani e combattono a fianco dei commilitoni di tuo figlio. Raccontano dei loro feriti, di quelli che noi giornalisti sparpagliamo come virgole dei nostri articoli. «Se a casa vedessero un braccio distrutto da un proiettile, sentissero le urla di chi viene colpito, il sangue che c’imbratta le divise quando lo soccorriamo capirebbero cosa significa stare da queste parti».
Lo so papà John tu non volevi che le foto fossero pubblicate. Julie e l’Associated Press prima di spedirle ai giornali te le hanno fatte vedere, hanno atteso che Joshua fosse sepolto, ma tu hai continuato a dir di no. Certo non è facile regalare al mondo lo strazio di un figlio, ma pensa ai suoi compagni. «Quando torniamo a casa ci guardano come marziani, le parole non bastano a spiegare... e noi abbiamo l’impressione di essere dei Dvd ascoltati per una sera e poi dimenticati nello scaffale». Me lo raccontava il sergente Stefano Taggiasco a Bala Baluk, me lo diceva un anno prima il caporale dei marines Josh Wycka, incontrato nella base di Apache South a pochi chilometri da quel boschetto di melograni dov’è morto tuo figlio. Secondo me papà John l’ultima foto di tuo figlio racconta meglio di mille discorsi l’inferno afghano, svela in un attimo impietoso il sacrificio delegato a quei ragazzi da chi vive nella tranquillità lontana e indifferente di case e uffici. Forse per questo, papà John, quella foto è l’ultimo regalo di Joshua ai suoi commilitoni, a quella «band of brothers» sempre così lontana dai nostri pensieri.
Un’ultima cosa ti vorrei dire papà John. Quando 23 anni fa iniziavo questo lavoro giravo le guerre assieme a due amici. Uno Almerigo Grilz è morto nel 1987 raccontando una guerra africana. Con Fausto Biloslavo sono appena tornato dall’Afghanistan. In quei primi focosi anni di lavoro e avventura spesso ci chiedevamo cosa fare nel caso uno di noi fosse ferito. Meglio soccorrerlo o fotografarlo? Quelle discussioni temerarie riacquistano un senso nella sofferta contesa su quella foto. Un soldato, a differenza di un altro professionista, firma un contratto che ne prevede purtroppo anche l’estremo sacrificio. Chi da fotografo o giornalista lo segue accetta di condividerne gli stessi rischi per poter in cambio raccontarne vita e morte.

E tu papa John da vecchio marines lo sai bene, nella spietata trigonometria della battaglia il centinaio di metri tra l’obbiettivo di Julian e tuo figlio Joshua sono lo starnuto di un braccio, lo scelta indecifrabile di un destino oscuro. Non solo per questo, ma anche per questo papà John, la fotografa Julie può ora permettersi di disobbedire al tuo disperato, inconsolabile dolore.

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