nostro inviato
a Pordenone
Fossimo in un thriller, il Grande Sospettato sarebbe il colpevole ideale. Vive nell'epicentro delle gesta di Unabomber, nella pianura a sud di Pordenone, in una villetta immersa nel verde a Corva di Azzano Decimo non lontana dal Mercatone Zeta dove potrebbero essere state comprate le forbici incriminate e dove il dinamitardo colpì il 2 settembre 2002 (un bimbo di cinque anni rimase ferito alle mani e al ventre dallo scoppio di un tubetto di bolle di sapone che gli avevano appena regalato). Nutre una passione smisurata per armi, esplosivi e l'elettronica studiata al Politecnico di Torino. Ha alle spalle una carriera tanto brillante quanto breve (quattro anni) alla Oto Melara, fabbrica di armamenti. Gli piace il fai-da-te, dai lavoretti di casa a quelli nel giardino fino a confezionarsi nel sottoscala i botti di San Silvestro. Siccome non getta mai nulla, nei suoi ripostigli si trova di tutto. Ed è una persona normale (49 anni, sposato, una figlia di 11 anni, ingegnere elettronico, dirigente di azienda): ottima copertura per una doppia vita da bombarolo inafferrabile e al di sopra di ogni sospetto.
Peccato che lui si dica estraneo a tutto. Che, da quando gli inquirenti gli hanno messo gli occhi addosso, abbia alibi per ogni volta che Unabomber ha colpito. Che con un'espressione allucinata ripeta di essere «vittima di una persecuzione che dura da due anni». Dal settembre 2004, quando fu iscritto nel registro degli indagati («ma chissà da quanto lo tenevano sotto controllo», sibila il suo avvocato), ha subito varie perquisizioni: setacciata tre volte la villetta di Corva, poi la casa di vacanza a Bibione, le abitazioni nel Bellunese dei genitori e del fratello cinquantatreenne funzionario di banca, perfino il luogo di lavoro. «Mi sono sentito come stuprato - racconta -, dopo avermi riempito di fango mi hanno gettato in pasto a giornali e tv. La prima volta erano una ventina, c'erano perfino gli artificieri, impossibile che la notizia non trapelasse. Questo è un paese piccolo, ci si conosce tutti, e anche se ho ricevuto tanta solidarietà mi sento sempre addosso gli occhi della gente».
«Ho spalancato le porte di casa mia e ho messo a disposizione degli inquirenti anche la mia professionalità nel settore delle armi e dell'elettronica - aggiunge l'ingegnere -. Un boomerang. Mi trattarono come il vero Unabomber, a mia moglie chiesero di confermare che la nostra convivenza era solo di facciata. Sequestrarono due mortaretti inesplosi, una vecchia valvola della tv e altra roba. Cominciarono a pedinarmi, ma la mia vita non cambiò perché non avevo nulla da nascondere. Per l'episodio di Portogruaro del 30 giugno 2005 ho un alibi di ferro: ero in ferie da una settimana con la mia famiglia e non mi sono mai staccato da loro».
L'ultima perquisizione risale ai primi dello scorso marzo: «Bussarono che mia figlia era ancora a letto, forse volevano farmi crollare psicologicamente. Avevo raccontato che usavo tubi artigianali in alluminio per i fuochi artificiali e che uno di essi era finito sotto terra mentre aravo il giardino. Setacciarono la mia proprietà con il metal detector finché l'aggeggio non saltò fuori, per fortuna. Era fabbricato in modo concettualmente simile agli ordigni di Unabomber, ma realizzato in modo diverso. Non avevo mentito. Non era un cilindro con cui fabbricare piccoli ordigni da nascondere in tubetti della maionese o sotto i sellini delle biciclette».
«Mi requisirono tutti gli attrezzi da giardinaggio e per il fai-da-te, compresa una sega diamantata e un paio di gigantesche forbici da potatura, roba prodotta in milioni di esemplari e che si compra in qualsiasi magazzino di bricolage. Credevo di essere uscito dalle indagini, e invece eccomi qui - scuote la testa il professionista -. Francamente dubito che sia possibile riconoscere una forbice da un'altra per segni sul filo del taglio. Se i miei attrezzi sono compatibili con quelli usati da Unabomber, non vuol dire che Unabomber sia io. La compatibilità può significare tutto e niente».
«Credo invece che il pool voglia far vedere alla pubblica opinione che continua a lavorare. O forse tentano di fare uscire quel mitomane allo scoperto. Ma io - dice l'ingegnere friulano - vivo un incubo che stressa e demoralizza, soprattutto perché non posso fare nulla per dimostrare la mia estraneità. Sono vittima di una persecuzione. Mi meraviglia continuare ad apprendere le notizie che mi riguardano dai giornali anziché dalle procure.
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