È senza parole. E guarda indietro con nostalgia insopprimibile. Potrebbe essere chiunque di noi, adesso, mentre il presente ci fa muti e il passato ci mette un nodo in gola, ma è un singolare film in bianco e nero che s’intitola, The Artist. Da venerdì in sala, quest’ennesima lettera d’amore al cinema hollywoodiano dell’epoca d’oro l’ha scritta un regista parigino, Michel Hazanavicious, che sa d’avere in tasca più d’una carta per l’Oscar. O, perlomeno, confida nella potenza di fuoco della lobby Weinstein: il produttore Harvey Weinstein, che ha sposato la causa di tale silente risposta ad Avatar e a tutte le bombe in 3D, che piovono soprattutto a Natale, sta andando alle proiezioni promozionali Usa con le nipoti di Chaplin, Dolores e Carmen. Quasi a ribadire che è là che occorre guardare, alle Luci della città (1931) di Charlie Chaplin e a tutto ciò che significa sogno e sentimento.
Della nostalgia non dobbiamo avere paura, ha ribadito Spielberg, che tra Tintin e War Horse, presto serio competitore di The Artist in zona statuetta, insiste con la retromania. E anche il grande Scorsese, con il suo Hugo in 3D, ha inviato un messaggio d’amore al cinema dei tempi andati. Ma qui c’è voluto un gran coraggio a investire 13 milioni di dollari in un progetto, che rischiava la parodia, tra cappellini anni Venti e sontuose dimore stile Viale del tramonto e invece fila via dritta verso 100 minuti di piacere visivo. «L’idea è nata dal grande desiderio di fare un film muto, però la cosa più difficile è stata reperire i fondi. Per fortuna, Thomas Langmann ha avuto fiducia sia in me sia nell’idea. Il muto è eccitante, perché è una forma cinematografica pura: non ci sono dialoghi, né letteratura», spiega Hazanavicious, in Francia noto per le sue spy-parodie di OSS117 e da noi pressoché sconosciuto. Come poco nota è, da noi, la formidabile coppia di attori che anima la storia. Lui, George Valentin (il seducente Jean Dujardin, miglior attore a Cannes) è un divo del muto, che ricorda Douglas Fairbanks: sexy, narciso e sempre con un piccolo terrier Jack Russell appresso («far recitare il cane è stato facile: bastava dargli la fila di salsicce, che Dujardin teneva nel calzino»). Lei, Peppy Miller (la deliziosa Bérénice Bujo), è una stellina senza arte né parte, che baciando lui a favore di flash, ottiene un titolone su Variety: «Chi è questa ragazza?» (il tipico Who’s that girl? che lanciò Madonna). Siamo nel 1927 e George e Peppy si piacciono e provano ad essere in due nella giungla di Hollywood, mentre il sonoro si va affermando. Ma se lui resta indietro, vanesio e innamorato di sé, lei diventa una star ed entra subito nel business del cinema parlato. Ribaltamento dei ruoli e drammi conseguenti, ma lei non si scorderà di lui, che l’ha aiutato a salire in cima. In superficie, pare una commmedia romantica all’epoca del charleston, però sappiamo che la profondità è in superficie e chi si tratta d’altro. «Anch’io pensavo che il muto fosse roba vecchia, però il pubblico oggi ne ha riscoperto il valore emotivo e la bellezza cinematografica del bianco e nero», sottolinea Hazanavicious, che ha girato a Los Angeles nei mitici studi Warner e in 35 giorni soltanto. Atmosfere alla Billy Wilder, dunque, e citazioni continue: dalla casa di Mary Pickford, dove vive Peppy, alle ombre nere che si allungano, evocando Fritz Lang e Murnau, il gioco del cinema diventa illusione e paragone. «Per rendere l’atmosfera dei film muti, col loro ritmo e le loro luci, ho girato 22 immagini al secondo, imprimendo una leggera accelerazione», approfondisce il regista, che cominciò nel 1993 ad accarezzare l’idea del suo film muto, grazie a un collage di classici hollywoodiani assemblato per la rete tv Canal+.
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