Gian Micalessin
da Nahariya (Israele)
«Ozak, tesoro, la casa senza di te è troppo vuota, ci sono i tuoi amici, ognuno si dà da fare, ma senza di te è come se non ci fosse nessuno... anche il cane è triste, e io senza il tuo amore mi sento svuotata, senza energia... chissà quanto male stai, spero ti trattino bene. Sarai debole, forse sei ferito, ti prego mangia tutto quel che ti danno, tieniti in forma, resisti, perché io, ozak, tesoro, non smetto di aspettarti». Karnit l'ha scritta la notte del 12 luglio. La prima notte da sola in quella casa troppo grande. La prima lettera di un libro più lungo e più triste ad ogni tramonto. Un libro chiamato angoscia, solitudine, speranza.
Karnit, 30 anni, è la moglie di Ehud Goldwasser, il riservista 31enne rapito il 12 luglio da un gruppo di Hezbollah dopo un'imboscata al confine. Si amano da nove anni, vivono assieme da sei, sono sposati da meno dieci mesi. Lei ti allunga la foto della luna di miele, un angolo di Turchia un giorno felice dello scorso ottobre. Un secolo prima di quel 12 luglio. Quella mattina Karnit accende la radio, sente dei soldati rapiti, capisce. «Lui è lì a Zarit, gli telefono, mando un sms, ma nessuno risponde. Al comando non sanno, dicono di aspettare, ma cosa? A mezzogiorno ne sono sicura, o è ferito o è morto o in mano loro, ma al comando nessuno parla. Solo alle quattro bussano alla porta. C'è un ufficiale in divisa, siamo amici, viviamo tutti e due qui a Nahariya, ci guardiamo in faccia lui sbianca, quasi sviene, mi dice tutta la verità, ci sono tre morti e due rapiti, ma un cadavere è irriconoscibile. Quindi Ehud può essere morto o rapito». Per Karnit sono ore d'incubo. «Mi sento immobilizzata, paralizzata, se Ehud è morto è finita, se è vivo posso lottare, ma lo devo sapere. Alle 11 di sera finalmente telefonano: il cadavere non è il suo. Di colpo mi sveglio, inizio a lottare». Sono passati 13 giorni, Israele ha attaccato il Libano, Nahariya è una città bersaglio, un tiro a segno umano per le katyushe di Hezbollah. Ma Karnit non vede, non sente, non s'esprime.
Shlomi, il sessantenne padre di Ehud tornato dal Sudafrica in fretta e furia, le siede accanto, azzarda qualche parola. «Certo negoziare sarebbe meglio, ma con chi? Per quanto tempo? L'altra volta ci sono voluti quattro anni per avere indietro i cadaveri di due soldati. Il mio governo questa volta ha deciso per la guerra, forse non è la soluzione migliore, ma ti dà una certezza. Decidere una guerra è la cosa più grande che uno Stato può fare per un proprio cittadino».
Anche Karnit ritrova la parola. «I missili sono caduti qui a fianco, hanno ammazzato due miei concittadini, so che anche in Libano molta gente è morta e io credetemi provo pietà anche per loro. Nessuno può essere felice quando della gente muore. Qui o in Libano non fa differenza, ma purtroppo non riesco ad emozionarmi, ad aver paura... La mia unica preoccupazione, il mio solo pensiero è Ehud». Karnit ti mostra il bloc notes. Righe scarabocchiate tra una colazione e un allarme, mille e altre mille parole per il suo ozak, per il «tesoro» perduto lassù oltre la frontiera crudele. Poi tira fuori quella consegnata alla Croce rossa. «Sono poche righe su un foglio prestampato, è la più stupida, ho scritto ti amo, ti voglio indietro presto, ma è la più importante, è l'unica che può arrivargli, se la consegneranno e gli permetteranno di rispondere sapremo almeno che è vivo, avremo una certezza, non brancoleremo più nel buio». Fuori a Nahariya esplodono i missili, qui tremano le pareti. All'ospedale qualche chilometro più in là c'è già la coda dei feriti. Karnit non fa una piega. «Lo so è ancora vivo, lo capisco, gli parlo, le nostre anime sono in contatto, sento quando è triste quando spera di farcela, quando mi vorrebbe accanto, ma a volte l'angoscia è più forte, esige una certezza».
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