Questo è un luogo della memoria perduta. Non ci sono segni. Non ci sono fiori. È tutto sepolto, dimenticato. Quello che vedi sono i resti dei quattro templi antichi, con le colonne che spuntano dalla terra come assi di bastone. Il resto è sotto. Qualcuno dice che questa non è neppure una piazza. È uno slargo, un incrocio complicato, è la fermata di un tram, l'otto. È dove c'è la sede del Partito radicale. È un punto più o meno a metà strada tra Palazzo Madama, con quel Senato che Renzi vuole riformare, e il Palazzo Grazioli di Berlusconi. È largo di Torre Argentina a Roma.
Eppure, se volete capire il cuore di tutti i conflitti politici, dovete venire qui. Osservate. Appena dietro i due templi centrali, in fondo, c'è un muro. Svetonio dice che lo fece costruire Ottaviano Augusto ed è proprio lì che comincia la Curia di Pompeo. Il resto non si vede, per trovarne le tracce bisogna andare sotto, scendere, e immaginare un viaggio a ritroso, fino al 44 avanti Cristo, in una mattina delle Idi di Marzo. È lì, in quel giorno, che fu ucciso Caio Giulio Cesare. E comincia una storia che ha un senso politico ancora oggi.
Le vie d'ingresso per il sottosuolo sono cinque. Due alberghi, uno chiamato Teatro di Pompeo, in largo del Pallaro 8, l'altro Hotel Sole, in via del Biscione 76. Il teatro Argentina, in via dei Barbieri 21, poi il ristorante Grotte di Pompeo e uno dei luoghi dove spesso i senatori della Repubblica italiana vanno a mangiare, Da Pancrazio, sempre in via del Biscione.
È da qui che si parte, dalle cantine. Prima però è bene sapere qualcosa. Torre Argentina non ha nulla a che fare con il Sud America. Si chiama così perché Johannes Burckhardt, detto Burcardo, ci fece costruire, demolendo le vecchie case medievali, il suo palazzo. Chi è Burcardo? Se avete visto la serie tv sui Borgia magari lo conoscete. È quella specie di cicisbeo che fece da maestro di cerimonie per ben cinque papi, tra cui Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia. Burcardo era di Strasburgo (che a quanto pare ha simpatia per i burocrati), Argentoratum in latino, e quindi lui si firmava Argentinus.
Cesare, invece. Perché l'hanno ucciso? Direte: era un tiranno. Ma non è così semplice. Roma in quel primo secolo avanti Cristo stava vivendo il suo «Novecento». Succede di tutto. È il secolo breve dell'antica Roma: conflitti ideologici, guerre civili, il Senato contro i grandi uomini, la tradizione che cerca di resistere alla modernità, il partito degli optimates contro quello dei populares , l'epoca dei generali e degli oratori, le riforme agrarie, l'assassinio dei Gracchi, la scomparsa di Scipione l'Emiliano, il terrore di Mario e Cinna, la restaurazione di Silla e le liste di proscrizione, la ribellione di Sertorio in Spagna, l'astro di Pompeo, la guerra dei socii italici contro Roma, i denari di Crasso, Cicerone contro Catilina, il triumvirato, la gioventù dorata e l'amore libertino, Catullo e Clodia («Mia Lesbia»), le squadracce di Clodio contro quelle di Milone, Cesare alla conquista della Gallia, il Rubicone, Farsalo, il suicidio di Catone, la testa di Pompeo portata da meschini ministri egiziani in una cesta, le lacrime di Cesare, Cleopatra, il consolato a vita, la corona di re rifiutata tre volte, le idi di Marzo, Bruto il tirannicida, Filippi, Antonio, Ottaviano e Lepido, ancora il triumvirato, l'ultima guerra civile, la pace di Augusto, fine della Repubblica, inizio dell'Impero. Tutto qui, dal 133 al 27 avanti Cristo.
Sono gli anni in cui una repubblica guidata da poche famiglie, che digerisce a fatica le ambizioni di pochi uomini nuovi e che non perdona chi tenta di andare oltre l'equilibrio raccomandato dai padri, si confronta con un mondo che all'improvviso è diventato troppo grande, troppo esteso, troppo veloce. Scorrerà il sangue, le teste dei nemici verranno issate sui rostri del foro.
Chi ha ucciso, allora, la repubblica? Se lo chiedete a Catone, il minore, o al suo discepolo e nipote Bruto, vi diranno che sono stati i nemici del Senato. Sono stati Tiberio e Caio Gracco che impongono riforme senza passare per il Senato, rivolgendosi alla plebe. Vi diranno che sono stati i demagoghi alla Saturnino o alla Catilina, vi diranno che sono stati i generali, le loro ambizioni, la loro megalomania, che li ha portati a minacciare le sacre mura di Roma, con i loro eserciti ormai privati che non obbedivano più al Senato ma al singolo. Vi diranno che sono stati i nuovi costumi importati all'Oriente, il lusso, il denaro dei mercanti, che volevano nuove terre da conquistare e nuove guerre, e i giovani senza più rispetto per i padri, e donne che amavano come uomini, meretrici di sangue nobile come la dissennata Clodia e il suo circolo di intellettuali. E, soprattutto, vi diranno che è stato Caio Giulio Cesare, l'aristocratico che è voluto diventare più grande dei suoi pari e che ha calpestato il mos maiorum .
I Gracchi o Druso, o quel Silone comandante dei Marsi, vi diranno che la colpa è di chi ha voluto fermare il tempo. Vi diranno che la colpa è di chi ha osteggiato quelle riforme necessarie alla sopravvivenza politica di Roma. Mario dirà che lui voleva solo ciò che gli spettava. Lui aveva salvato l'Urbe dai barbari, lui, non i Metelli, non quegli arroganti aristocratici senza valore. Saturnino ricorderà che lui voleva il bene della Suburra, contro i ladri che sedevano in Senato. Spartaco voleva solo non morire in un'arena.
Ognuno quindi ha la sua storia. Quello che è certo è che in quel mattino delle Idi di marzo Cesare stava sereno. Ha rinunciato alla guardia del corpo spagnola. Non diede retta a Spurinna, l'indovino cieco di origine etrusca. «Spurinna come vedi le idi sono giunte». «Sì, Cesare. Ma non sono ancora trascorse». Si ritrova in mano un biglietto che lo avvisa della congiura. Non riuscirà a leggerlo. Lo troveranno tra le sue dita, quando è già cadavere. Ora andate a vedere da chi arrivano le 23 coltellate. Molti sono optimati che Cesare ha perdonato. Quello che non sopportano è il perdono. Altri sono populares , sono uomini di Cesare. E lo tradiscono. Forse perfino Antonio sapeva e si defila. Resta fuori da quel Senato improvvisato che è la Curia di Pompeo. Quel giorno erano lì perché il «Senato vero» era inagibile. È la beffa più grande. Morire ai piedi della statua dell'uomo contro cui ha combattuto la più amara delle guerre civili. Cesare certo ha le sue colpe. Ha fatto una guerra contro la Gallia che non serviva a Roma ma a Cesare. Il passaggio del Rubicone è di fatto un colpo di stato. È vero però che se fosse tornato a Roma da privato cittadino Catone l'avrebbe processato e condannato. Non aveva altre strade per riformare una repubblica serva di una casta di oligarchi.
È per questo che lo ammazzano. E quel giorno il Senato muore. Il senso di questa storia è tutto qui. Il vero tiranno verrà dopo. Non ha la grandezza di Cesare, ma molto più cinismo. Cesare non voleva l'impero. Ottaviano sì e con un sorriso illuse i senatori. Tanti onori e nessun potere.
È così che si spense il Senato di Roma. Cesare, nonostante tutto, era la Repubblica. Era la Repubblica che per non morire si era incarnata in un uomo. Morto lui, morta anche lei. Erano le Idi di Marzo. Raccontano che tutta Roma pianse.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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