Un quindicenne suicida sotto il treno

Come tutti i giorni si è alzato, si è vestito, è uscito di casa, ha camminato fino alla ferrovia e quando è arrivato il convoglio s’è lanciato sui binari. A soli 15 anni. L’impatto non gli ha lasciato scampo, ai soccorritori non è rimasto che raccogliere un povero copro senza vita. Ai famigliari invece, interrogarsi sui motivi. Che sembrano ruotare attorno a una difficile separazione in corso tra i genitori.
Non sembra infatti che ci fossero altre ombre nella vita di questo adolescente che ha deciso di chiudere la breve esistenza ieri mattina, un minuto prima delle sette. Alle 6.59 infatti passa per Castano Primo il locale partito da Saronno alle 6.36 e atteso a Novara per 7.22. Nessun dubbio sulla volontarietà del gesto a cui è stata data anche una motivazione.
«Il peso di una separazione conflittuale effettivamente può schiacciare il figlio, ma non è una causa molto diffusa, soprattutto se pensiamo alle tante di separazioni in corso. Prima ci sono gli insuccessi scolastici, le delusioni amorse, i tradimenti degli amici» spiega Claudio Mencacci, direttore del dipartimento di Neuroscienze, impegnato al Fatebenfratelli insieme ai coleghi di Pediatria in un progetto, unico in Europa, per la prevenzione dei suicidi minorili.
Cosa ha voluto fare allora il ragazzo, punire i genitori?
«Non credo, piuttosto autopunirsi, perché può essersi sentito causa della separazione, soprattutto se è stato oggetto di una disputa tra i due per l’affidamento».
Ma come può un adolescente pensare a togliersi la vita?
«È un fenomeno purtroppo assai frequente. Ogni anno in Italia si uccido ufficialmente 230 minori, ma almeno altri cento incorrono in “incidenti” tanto particolari da essere considerati suicidi e tutti gli effetti. Ma per quanto ormai in psichiatria sia preparata a “svelare” gli episodi sospetti, moltissimi altri sfuggono alla catalogazione. Quindi possiamo immaginare, i casi siano molti, ma molti più di 330».
Come si può intervenire?
«Banale dirlo ma con la prevenzione. Per farlo però bisogna saper decifrare ogni minimo segnale. Ma soprattutto mai sottovalutare il più sciocco dei tentativi, magari riducendolo a un «Non voleva davvero uccidersi”. Il pensiero di morte è molto frequente nell’adolescenza, ma solitamente rimane allo stato di idea. Se passa anche se in maniera approssimativa alle successive fasi di progettazione e realizzazione, bisogna intervenire. Anche perché le statistiche ci dicono che nel 60 per cento dei casi il ragazzo farà un nuovo tentativo entro un anno e mezzo».
L’adolescenza resta l’età difficile per antonomasia dunque?
«Certo, perché anche se molti disturbi possono apparire fin dall’età infantile, la maggior parte si sviluppa indubbiamente con la pubertà».
In che modo si può intervenire?
«Qui entra appunto in gioco la collaborazione con il dipartimento di Pediatria.

Con il quale possiamo elborare un’adeguata psicoterapia, all’inizio sostenuta anche farmacologicamente, che deve arrivare a coinvolgere il nucelo famigliare. Perché difficilmente l’ambiente resta estraneo al disagio del bambino».

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