Da Rabin a Sharon una stirpe in divisa alla guida di Israele

Dayan fu capo di Stato maggiore, Barak raggiunse il massimo della gerarchia militare

Marcello Foa

Servivano Israele con il cuore. E con le armi. Sharon è l’ultimo rappresentante di una stirpe destinata a interrompersi, almeno per ora: quella dei generali e dei combattenti scesi in politica, alla guida dello Stato ebraico.
Israele esiste solo da 57 anni e basta scorrere la lista dei primi ministri per accorgersi di quanto le forze armate abbiano inciso sulla vita politica del Paese. Poche le eccezioni. Una sicura, Golda Meir. Due inevitabili per ragioni anagrafiche: il padre della patria Ben Gurion e il suo successore Moshe Sharett, entrambi membri dell’Agenzia ebraica. Ma tutti gli altri hanno, in un contesto o nell’altro, imbracciato le armi. A cominciare da Levi Eshkol, membro dell’Alto comando dell’Haganah, l’organizzazione paramilitare ebraica che operò in Palestina dal 1920 al 1948 e trasformatasi, alla proclamazione dell’indipendenza, in quello che oggi è l’esercito nazionale. Anche Shimon Peres militava nell’Haganah, responsabile dell’arsenale, e durante la guerra d’Indipendenza prestò servizio come capo dei Servizi navali. Più controverso il ruolo di Menachem Begin, il capo dell’Irgun, l’organizzazione staccatasi dell’Haganah, per iniziare la lotta armata compiendo azioni violente, come l’attentato al King David hotel di Gerusalemme in cui morirono 91 persone, che lo stesso Ben Gurion considerava di chiara matrice terroristica. Non era certo un militare, Begin, ma fu lui a convincere i militanti dell’Irgun a deporre le armi e a confluire nelle nascenti Forze di difesa, scongiurando il rischio di una guerra civile.
Anche Yitzhak Shamir militava nell’Irgun e poi, addirittura, in un gruppo ancor più radicale, il Lehi-Combattenti per la libertà di Israele. Ma il suo coinvolgimento nelle vicende militari è legato al ruolo svolto tra il 1955 e il 1965 nel Mossad, il servizio segreto israeliano, di cui divenne uno dei massimi responsabili, in un decennio in cui la gestione dell’intelligence risultò cruciale per la sopravvivenza dell’ancor fragile Stato ebraico.
Un militare tutto d’un pezzo fu invece, una delle figure più amate e rimpiante di Israele, Yitzhak Rabin. All’età di 32 anni era già Maggior generale e fu lui a impostare le vittoriose strategie militari durante la Guerra dei Sei giorni, nel 1967. A quell’epoca Rabin era il capo di Stato maggiore, incarico che lasciò un anno dopo, per diventare ambasciatore a Washington. Poi il ritorno in Israele, l’entrata in politica. Nel 1976, come primo ministro, decise una delle più spettacolari azioni militari della storia dello Stato ebraico: il blitz delle teste di cuoio israeliane all’aeroporto di Entebbe, in Uganda, conclusosi con la liberazione di tutti i passeggeri di un aereo della Air France sequestrato dai terroristi. Infine, nel 1992 di nuovo premier e protagonista, un anno dopo, di uno straordinario, emozionante gesto di pace: gli accordi di Oslo, culminati con la celebre stretta di mano con il nemico di sempre, Yasser Arafat, sul prato della Casa Bianca. Un passo che Rabin pagò con la vita nell’attentato del 4 novembre 1995, perpetrato da un estremista israeliano.
A Entebbe «nacque» un altro leader, Benjamin Netanyahu. In quell’operazione, infatti, morì suo fratello, il luogotenente colonnello Yonatan che guidava i reparti speciali. Lo stesso «Bibi», così viene soprannominato dai giornali, rimase ferito in un altro blitz, quello condotto all’aeroporto Ben Gurion per porre fine a un altro sequestro. Netanyahu era entrato volontariamente nelle forze d’assalto, che lasciò dopo sei anni di servizio, con il grado di capitano. Questi due episodi, ma in particolare il primo, segnarono la sua visione del mondo e del conflitto israelo-palestinese, trasformandolo in un «falco» irriducibile, come dimostrò in qualità di primo ministro, tra il 1996 e il 1999 e ancor oggi come leader del partito di destra Likud.
A succedergli, alla guida del governo, fu un altro militare di carriera, Ehud Barak, laburista come Rabin, che all’età di 49 anni raggiunse il grado di Luogotenente generale, il più alto nella gerarchia militare israeliana. E come Rabin, impegnato nel cammino di pace. Fu lui a tentare di finalizzare con Yasser Arafat, durante il drammatico summit di Camp David del 2000, il processo iniziato nel 1993. Quel fallimento, diede avvio alla seconda Intifada e all’ascesa, il 7 marzo 2001, di un altro ex militare, Ariel Sharon.
L’intreccio esercito-politica non riguarda solo i primi ministri, ma molte altre grandi figure dello Stato ebraico. Come Ezer Weizman, numero uno dell’Aviazione israeliana e, durante la Guerra dei Sei giorni, capo delle operazioni dello Stato maggiore. Eletto nel 1993, Weizman è stato uno dei presidenti più amati dagli israeliani per il suo stile informale e amichevole, perlomeno fino al 2000, anno in cui si dimise in seguito a uno scandalo finanziario.
E, soprattutto, come Moshe Dayan, un altro capo di Stato maggiore, e uno dei leader più conosciuti nel mondo, grazie anche al suo look inimitabile. Colpito all’occhio sinistro durante un’operazione militare nel 1941, portò per il resto della sua vita la benda nera sul viso che divenne il simbolo della sua tempra: «Io vedo con l’occhio sano, ma comando con quello cieco». Guidò l’esercito israeliano durante la crisi di Suez nel 1956, ma conobbe la popolarità come ministro della Difesa, durante la Guerra dei Sei giorni e poi la quasi catastrofica guerra del Kippur del 1973.

Un uomo brillante, vulcanico, immaginifico. Di lui Sharon diceva: «Si sveglia con cento idee, di cui novantacinque pericolose, tre pessime, ma due estremamente brillanti». Un uomo mai banale.
marcello.foa@ilgiornale.it

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