Raccontiamo la verità: non era così male la Roma del Papa-re

Dott. Granzotto, anch’io, come lei, pur non mettendo in discussione l’unità d’Italia (quel che è fatto è fatto!) amerei non sentire più le bugie e le mezze verità che ancora si dicono sull’argomento e che, c’è da giurarci, nella ricorrenza del secolo e mezzo da quella data torneranno a farci una testa così. Ma le chiedo: secondo lei, questo vale soltanto per il Regno delle Due Sicilie e per i Borboni o in qualche misura si può applicare anche allo Stato Pontificio e al Papa? A Roma era veramente tutto così storto? E ammesso che lo fosse, in base a quale principio del diritto internazionale il Piemonte poteva sentirsi autorizzato a porvi rimedio e il Papa obbligato a spalancargli le porte?
Chieri

A Roma e così in tutto lo Stato Pontificio le cose non andavano poi tanto male, caro Mignozzetti. Certo, la polizia era occhiuta, ma non più di quella di Torino o di Napoli, di Milano o di Firenze. Certo, s’alzava qualche forca, ma sempre meno di quelle erette a Torino, Napoli, Milano o Firenze. Governo paternalistico quasi per antonomasia, quello pontificio si prese cura (nei fatti, non a parole) delle classi più deboli e umili. La retorica risorgimentale le liquida come elemosine, ma i sussidi, gli ospedali pubblici, le mense dei poveri, i Monti di Pietà (che sotto il Papa Re fecero la loro comparsa in Europa) costituivano la struttura di un welfare, come si direbbe oggi, molto efficace e capillare. Per il resto e per dirla con il Belli, «er vino a bbommercato, er pane grosso, /li pesi ggiusti, le piggione bbasse» era quello che il popolo chiedeva e che elevava a simbolo del buongoverno. Naturalmente c’era chi fra gli studenti, gli artisti o gli intellettuali chiedeva di più, come ad esempio disfarsi del Papa e del suo governo di prelati. Però era fronda molto contenuta, almeno fino all’arrivo di quell’iradiddio di Napoleone e del suo bagaglio appresso, l’ideologia giacobina (sempre Belli, ne Li delitti d’oggigiorno, ammette che il Papa era di manica larga nel giudicare l’adultero, il truffatore o il responsabile di altro «diavolèrio». Ma quando gli sussurrarono: «Santo Padre, don Marco è giaccubino (...) in ner momento istesso, sentennose toccà dove je dole, lo condannò da lui senza proscesso»). L’occupazione francese, con le sue ruberie, la sua arroganza e il suo sgangherato laicismo lasciò comunque nei «papalini» un pessimo ricordo. Tanto che quando nel maggio del 1813 Pio VII fece ritorno a Roma dall’esilio, il popolo gli si strinse attorno come mai si era visto in tutta la storia della Chiesa.
Le cose precipitarono quando precipitarono gli eventi e un pezzo dello Stato Pontificio se ne andò con i Plebisciti del ’59-’60 (senza che la Chiesa calcasse troppo la mano: di repressione si ricorda e sempre en passant quella di Perugia. Ci furono morti, ma niente a che vedere con i metodi del Piemonte redentore, con le cannonate di Bava Beccaris, per dire). Ma era Roma l’oggetto del desiderio. Roma e la fine del potere temporale del Papa, invocata dai circoli massonici e mangiapreti che costituivano il nerbo della nomenclatura risorgimentista. Garibaldi (per il quale Pio IX era «un metro cubo di letame») ci provò due volte e due volte le prese di santa ragione. Poi intervenne la seconda delle tre esse - Solferino, Sedan e Sedowa - che per dirla con uno che se ne intendeva, Bismark, regalarono l’Italia ai Savoia.

Napoléon, cédant Sedan, céda ses dents consentendo così al generale La Marmora e ai suoi bersaglieri «alla fronte il cappello piumato,/il miraggio di Roma nel cuor», di aprire impunemente la breccia di Porta Pia. Chiedersi se fu usurpazione o «liberazione» oggi non ha più senso, caro Mignozzetti. Come si dice? Cosa fatta capo ha.

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