Pedro Armocida
da Roma
Gli Stati Uniti ce la stanno mettendo tutta per fermare gli immigranti messicani. Invece di ringraziarli (l'economia californiana poggia su di loro), Bush ha recentemente autorizzato l'ampliamento del muro di confine di circa 1200 chilometri. Ad Hollywood però alcuni «migranti», certo non clandestini ma con i visti che periodicamente scadono, si sono trasformati nei registi più affermati di un nuovo inquietante immaginario che punta il dito proprio contro alcune politiche oggi in voga negli States. Pensiamo naturalmente al tema dell'immigrazione che Alejandro González Iñárritu tocca con Babel, uno dei film più visti nellultimo fine settimana. Oppure a Guillermo Del Toro che dopo Blade II e Hellboy approderà nelle nostre sale con il nuovo Il labirinto del fauno, presentato al Torino Film Festival ormai alle porte. A formare la triade riconosciuta e che si riconosce, scambiandosi consigli e giudizi, c'è Alfonso Cuarón che dopo il successo di Y tu mamá también («Anche tua madre») e di Harry Potter e il prigioniero di Azkaban (il terzo della saga), è approdato in concorso a Venezia con I figli degli uomini, in uscita il 17 novembre in 220 copie. Una storia inquietante ambientata in un futuro non lontano, il 2027, in cui da 19 anni non nascono più bambini.
Siamo in un Regno Unito militarizzato che a malapena riesce a resistere all'illegalità fomentata, pare, dall'immigrazione clandestina. C'è Theo (interpretato da Clive Owen) che da attivista per i diritti civili s'è trasformato in un ignavo, se non fosse per il vecchio amico Jasper (un grande Michael Caine) memore del suo passato. Un giorno l'ex compagna di vita e di lotta (Julianne Moore) lo coinvolge nella difficile operazione del suo gruppo di proteggere Kee (Clare-Hope Ashitey), una giovane donna di colore che è incinta di otto mesi. I due contro tutto e contro tutti diventeranno gli eroi di una futura generazione. Forse, perché il finale non dice tutto.
Racconta Cuarón di passaggio a Roma: «Il mio vero epilogo era ancora meno speranzoso. Dopo averlo letto Iñárritu mi ha detto che non ero onesto se non inserivo il mio punto di vista. In effetti io ho una grande speranza nel futuro. Ecco perché ho deciso di seguire il suo consiglio preoccupandomi però di non imporre completamente la mia speranza, ogni spettatore la troverà dentro di sé». Poco meno di due ore di film che colpiscono soprattutto per la grande abilità del regista nell'uso della macchina da presa che pedina il protagonista, Clive Owen, in un modo assolutamente straordinario. Un aspetto condiviso anche dalla giuria di Venezia a cui va il merito di aver riconosciuto, con l'Osella per il contributo tecnico, il lavoro di Emmanuel Lubezki, uno dei più grandi direttori della fotografia oggi in circolazione. «Avevamo collaborato anche in Y tu mamá también, un film molto più piccolo ma segnato dallo stesso approccio in cui i personaggi sono importanti quanto l'ambiente sociale», ricorda il regista che sogna di fare una piccola commedia in Italia con Gael García Bernal. «Ecco perché mancano i primi piani che trasformano i personaggi in protagonisti. Abbiamo tentato di fare come ne La battaglia di Algeri in cui Gillo Pontecorvo aveva assorbito le tecniche del cinegiornale. Noi abbiamo seguito il protagonista con un'estetica simile ai reporter con la videocamera che stanno in mezzo alle guerre e scansano all'improvviso una pallottola». Tanti i temi presenti ne I figli degli uomini, tratto dall'omonimo romanzo di P. D. James (Mondadori), tra cui l'immigrazione e l'infertilità che, secondo Cuarón, «sta a significare la mancanza di speranza, ritrovata alla fine nel bambino che nasce. Non volevo realizzare un film di fantascienza con ipotesi sul futuro.
«Racconto lapocalisse con la speranza»
Nel 2027 dominano sterilità e violenza, ma poi un bimbo nasce
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