Della martire Rachida Dati non ha l'aspetto, la storia o la disposizione, insomma sarà difficile che i suoi nemici vocianti e volgari riescano a farla immortalare mentre piange. Piuttosto è una «survivor», una che si è fatta da sola, figlia di immigrati magrebini nel ghetto della banlieue, undici fratelli da tirare su, studi da pagarsi lavoricchiando il giorno e stando sui libri la notte, ma nessuna intenzione di restare nel ghetto, anzi una voglia pazza di onorare le sue ambizioni. Basterebbe la sua gloriosa traiettoria di vita a dimostrare che è una grande donna, o un grand'uomo, o tutt'e due, se preferite. La sua maternità, libera e allegra, lo conferma. Capita alle grandi donne di attirare discredito e calunnia, frutto di invidia. La Francia non è diversa dall'Italia, anche se lì c'è uno Stato che funziona, e qualche passione in più per l'eccellenza. Ma abbiamo in comune i morbi pestilenziali del conformismo, dell'assistenzialismo, del sindacalismo.
La signora Dati ha quarantatré anni, una vita sentimentale libera, privata e riservata, impermeabile anche alle chiacchiere. In queste condizioni aspetta una figlia e la partorisce. Non ha rivelato il nome del padre, non ha ceduto alla pressione sociale e mediatica enorme durata nove mesi, una vera e propria caccia al maschio famoso fecondatore, nel corso dei quali, fino al momento del parto, ha continuato a fare il lavoro improbo di ministro della Giustizia che ha deciso di fare una riforma, che ha smosso un nido di vipere, che si è attirata l'odio della casta dei giudici perché ha toccato il loro ordinamento. Come spesso capita ai più temerari, il suo presidente, François Sarkozy, prima le ha dato pieni poteri, poi si è tirato indietro. Lei no, e il prossimo rimpasto di governo la troverà seduta al suo posto nel Consiglio dei ministri.
La signora Dati è bella, elegante, ha raggiunto uno status che le consente qualche lusso, un bel gioiello, un tailleur firmato. Ci mancherebbe che non le fosse concesso, vista la gran fatica che ha profuso per essere quella che oggi è. È stata elegante e ben pettinata per l'intera gravidanza, è tornata dopo la nascita della figlia in forma smagliante. Per tutto questo tempo ha sorriso, sempre, e c'è voluto coraggio. Si fosse presentata come la classica musulmana malvestita e infagottata in nome di Allah, avesse qualche volta esibito una testa velata, allora avrebbe goduto di plauso e solidarietà del mondo sociale e delle femministe.
La signora Dati, infine, è tornata nel suo ufficio dopo cinque giorni dal parto, avvenuto con taglio cesareo. Ha da fare, e poco tempo per lagnarsi o farsi coccolare. La bambina, ben coperta, si sposta con lei. Apriti cielo: fra femministe, sindacalisti, neonatologi, ginecologi, esperti di astrologia e di psicologia, è partito un autentico coro di commenti velenosi.
Alle vestali del femminismo isolazionista, retrivo e rabbioso, ai sindacalisti di professione che hanno trasformato ogni diritto in sopruso, ogni garanzia per gli occupati in muro contro i disoccupati, agli integralisti musulmani che ci assediano come se noi dovessimo fare i conti con loro e non loro con noi, e ai cattocomunisti che volentieri praticano l'economia depressa delle madri casalinghe e delle marce della pace, tutt'e due da finanziare a pioggia, a tutti quelli che in Italia, in Francia, hanno trasformato la gravidanza e la maternità in una malattia gravissima, Rachida Dati va di traverso come un sorso d'acqua fresca e frizzante. Chapeau bas.
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