Cultura e Spettacoli

Radical flop

La giovane narrativa italiana degli ultimi anni, più vegeta che viva, è passata attraverso mille etichette. Se un tempo per un esordiente arrivare in libreria era un miraggio che poteva inseguire per anni, dall’inizio degli anni ottanta la macchina editoriale ha deciso di puntare molto, anche se a fasi alterne, sui nuovi autori italiani. Il tempo di devastazione iniziò con Pier Vittorio Tondelli che con il suo progetto “Coda” si dimostrò più un talent discount che un talent scout. Vogliamo forse illuderci che Culicchia o la Balestra, scoperti da Tondelli, siano letteratura e non tra i rappresentanti della peggior melassa narrativa degli ultimi anni? Poi ci furono i “cannibali”: qualche buon autore e autentici miracoli viventi. Che dire, ad esempio, di Aldo Nove, un autore che sulla soglia dei cinquant’anni è sempre considerato “giovane” e ogni suo libro accolto come un debutto? Prima i racconti, eccelsi, di Woobinda, poi il precariato e infine i versi dedicati alla Madonna. Aldo Nove riesce a surfare sulla critica italiana mantenendosi un “sempreverde”.
Al di là delle etichette, che troppo spesso diventano recinti, da qualche anno si assiste a un fenomeno preoccupante: quello dei “Radical Flop”, giovani autori che a ogni uscita editoriale mandano in estasi critica letteraria e ambienti intellettuali ma che poi non (ri)trovano alcun riscontro nei lettori. E i “Radical flop”, autori di cui sembra chic scrivere e parlare nella consorteria intellettualoide dei nostri tempi, aumentano di giorno in giorno. Pochi, però, i veri antesignani che hanno dato il via a questo fenomeno di imposizione non solo mediatica da manuale. Quasi fossero rimasti ai tempi dell’Accademia della Crusca, la seriosità in certi casi tocca l’essere auto-aulici, con foglie d’alloro e inchiostro, sanno come far riflettere il proprio ego sul palcoscenico della macchina editoriale (quasi un rimando alla «macchina attoriale» teorizzata da Artaud). Atrofizzando la letteratura, rendendola enciclopedica comparsata da parata, eliminando qualsiasi enfasi vitale alzano la coppa su un podio le cui vette sono da sottoscala e con orgoglio vivono con parte ma senza arte. Non che si vogliano richiamare in vita i maledetti o gli scapigliati ma nemmeno una parure da geni compre(s)si nel prezzo.
Un autore come Nicola Lagioia, ad esempio, è stato capace di imporsi nel panorama dei “radical flop” non si sa con quali mezzi. Naturalmente i gusti sono del tutto personali ma in certi casi l’oggettività delle opere dovrebbe essere a dir poco evidente. Dal sito di minimum fax, con i quali Lagioia lavora, leggiamo che è nato a Bari nel 1973, ha collaborato con diverse case editrici, lavorato come ghost-writer, scritto sceneggiature. Nel 2001 il suo primo romanzo, Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi) e nel 2004 Occidente per principianti, pubblicato nei SuperCoralli Einaudi. «Attualmente», si legge, «dirige Nichel, la collana di narrativa italiana di minimum fax, collabora con la rivista Accattone, scopre talenti, scrive reportage e organizza traslochi». Il rapporto tra scoprire talenti e organizzare traslochi non è chiaro ma il nesso nei “radical flop” può sempre nascondersi dietro l’angolo.
Basta leggere la rassegna stampa per scoprire come entrambi i romanzi, li ricorda qualcuno?, abbiano ottenuto il plauso quasi generale, generalista sarebbe troppo?, della critica letteraria italiana. Giovanni Pacchiano del Sole-24 ore, ad esempio, ha scritto che «Lagioia ha utilizzato il registro visionario per individuare le crepe aperte sul muro della modernità». Ma non era Richard Powers ad aver utilizzato per primo, in Tre contadini vanno a ballare, il concetto che non siamo altro che «mosche schiacciate sul muro della modernità»? Quasi inspiegabile, poi, il passaggio a una collana prestigiosa come quella dei SuperCoralli Einaudi (chissà cosa penserebbe Cesare Pavese) perché Occidente per principianti, incensato tra i tanti anche da Paolo Di Stefano sul Corriere della Sera, è qualcosa di molto distante dal ritratto di «un’Italia divorata dal moloch dello spettacolo, dalla libertà obbligatoria dei trentenni destinati a un infinito precariato intellettuale, dal senso d’irrealtà di un mondo in cui le cose non sono più davvero le “cose”». Leggendo il romanzo, la prova empirica ancora una volta è alla portata di tutti, non si è tentati dalla noia doppio malto ma poco ci manca. È ginnastica sul posto: è come leggere di un criceto che fa il giro sulla ruota della sua gabbietta.
Un altro “radical flop” è un compagno di ventura di Lagioia: Christian Raimo, anche lui collaboratore di minimum fax, per cui pubblica i suoi stessi libri. Il suo debutto, con i racconti di Latte, aveva fatto ben sperare ma il successivo Dov’eri tu quando le stelle gioivano in coro?, malgrado le critiche entusiastiche di Corrado Augias sul Venerdì, Alessandro Beretta sul Corriere della Sera e Roberto Carnero su Famiglia Cristiana (solo per citarne alcuni), ci fanno pensare a tutto tranne che Raimo sia, come hanno scritto, «il più carveriano degli scrittori italiani».
Altro mistero “radical flop” è Marco Missiroli che con Senza coda (Fanucci) nel 2005 ha vinto il premio Campiello opera prima, per poi passare a Guanda con Il buio addosso (2007) e il recentissimo, uscito a giorni, Bianco. Autore molto incensato, soprattutto dalla Stampa e dal Corriere, è un altro caso di scrittore che riesce a camminare sulle acque attraverso un tam tam mediatico e critico che coglie impreparati. Ancora una volta la prova è empirica: basta imbattersi in qualsiasi delle sue pagine per trovarci Senza coda ma nemmeno senza capo.
Un autore che aveva sorpreso molti con il notevolissimo romanzo d’esordio M (Cronopio editore) e il successivo Lo spazio sfinito (Fanucci) una volta (tra)passato da Stile Libero Einaudi sembra aver perso ispirazione e libertà, lo stile resta. Degli altri romanzi, a parte le consuete lodi critiche, Pincio non è stato capace di rinnovarsi pur riuscendo a mantenere intatta l’aurea di radical ma affondando sempre più nel flop. Come nel suo ultimo Cinacittà che, al di là del gioco di parole di indubbia attualità, ci regala poche o nessuna evoluzione. Unica nota, che infittisce ancor più il mistero dei “radical flop”, è come un romanzo che non c’entra nulla con il noir sia arrivato quest’anno tra i finalisti del premio Scerbanenco proprio al NoirFest di Courmayeur.
Altro mistero è Mario Desiati: ex caporedattore di Nuovi Argomenti (che aveva ereditato da Enzo Siciliano) e direttore di una collana Fandango, Il suo debutto, nel 2003 con Neppure quando è notte (Pequod) è indubbiamente tra i migliori degli ultimi anni, ma i successivi Vita precaria e amore eterno (Mondadori, 2007) e Il paese delle spose infelici (Mondadori 2008) hanno deluso malgrado le lodi sperticate della critica (dal Corriere ad Avvenire, dal Manifesto a La Repubblica) che hanno trovato in Desiati «il vero erede della letteratura americana in Italia». Un’eredità che, ne è testimonianza sempre l’interesse dei lettori, non sembra avere lasciato tracce.
Sempre difficile comprovare i dati di vendita, le case editrici su questo è quasi inutile interpellarle, ma il fatto che a nessuno di questi autori sia mai stata dedicata un’edizione tascabile conferma il flop e lascia aperto l’interrogativo più radical.

Come è possibile una scollatura così evidente tra entusiasmo della critica e interesse tra i lettori? O la critica è morta, oppure questi “camminatori sulle acque” hanno fatto propria la frase che il profetico scrittore inglese George Gissing scrisse già nel 1891 nel suo romanzo capolavoro New Grub Street (Fazi): «Le persone non hanno successo nell’attività letteraria per poi essere ammessi in società, ma si fanno ammettere in società per avere successo nel mondo letterario».

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