Nulla là dentro fa pensare a un ospedale. Entrare in quella cameretta accogliente mette addosso una sensazione di protezione, di casa. Poi senti come i medici l'hanno ribattezzata e solo il nome fa venire i brividi: è la stanza anti-suicidi. È qui che vengono portati i ragazzini che hanno tentato di togliersi la vita.
In effetti, a guardarsi bene attorno, c'è qualcosa che non va. Le finestre sono sigillate, nel cestino di fianco alla scrivania non c'è il sacchetto di plastica per raccogliere i rifiuti. Gli spigoli dei mobili sono smussati e non ci sono appigli di alcun genere, nemmeno per appendere i vestiti nell'armadio. Anche i cavi del computer sono protetti e un po' più corti del solito. Niente travi o lampadari, niente specchi, neanche in bagno. Ogni centimetro quadrato è stato pensato per proteggere i pazienti da qualsiasi tentativo di ferirsi o tentare nuovamente il suicidio. Per il resto l'atmosfera non potrebbe essere più delicata e rilassante. Sul letto non ci sono le classiche lenzuola da ospedale ma un copripiumone con i disegni, le pareti sono blu, il colore della quiete. Non si vedono, ma da qualche parte, nascostissime, ci sono delle telecamere per monitorare i ragazzi anche durante la notte.
Siamo alla Casa pediatrica dell'ospedale Fatebenefratelli Sacco di Milano, reparto di psichiatria, il primo che, dal 2006, ha deciso di affrontare i disagi giovanili in un modo più completo. E umano. Un tempo i ragazzi che si tagliavano le vene venivano operati, curati, bendati e mandati a casa. I sopravvissuti dai tentati suicidi rimanevano in reparto per qualche giorno in stanzoni con più letti e luci al neon, i più grandicelli finivano persino accanto a malati psichiatrici adulti. Dopo qualche giorno di degenza tornavano a casa. E stava a loro e ai loro genitori cominciare da soli un altro percorso di ricostruzione. Interiore.
Ritorno alla vita
Oggi è tutto diverso, il viaggio inizia (e prosegue a lungo) assieme a medici, psicologi e volontari, tanto che al reparto arrivano pazienti da tutta Italia. Il primo passo, quello più difficile, avviene proprio in quella stanzetta intima e defilata dal resto del reparto, dove gli adolescenti cercano di rimettere assieme i pezzi delle loro anime frantumate e, riluttanti, tornano a vivere, presi per mano da chi li sa aiutare. Qualcuno ci riprova a suicidarsi e allora il lavoro per salvarlo diventa ancora più delicato e lento.
«Alcuni ragazzi rimangono nella stanzetta anche sei mesi - spiega Francesca Maisano, psicoterapeuta dell'età evolutiva, nello staff clinico del centro per gli adolescenti -. La maggior parte dorme lì dentro per qualche settimana». Piano piano in reparto si cerca di avviare la difficile risalita. Innanzitutto ricostruendo un ambiente casalingo. In ospedale non c'è una parete dei corridoi che non sia piena di murales e colori. E poi ci sono le attività: c'è la palestra dove si organizzano corsi per recuperare la fiducia in se stessi e allenare quell'autostima che molto spesso viene schiacciata da problemi in casa o dalle frasi sprovvedute di qualche bulletto a scuola. Ci sono le aule d'arte, dove i ragazzi manipolano la creta, danno forma ai propri contenuti emotivi attraverso tempere e pastelli, ci sono laboratori di musica, il mezzo che più di tutti è in grado di smuovere emozioni e abbattere barriere.
Solo nel reparto dell'ospedale milanese nell'ultimo anno sono arrivati 1.200 ragazzi, tra cui anche un numero sempre più consistente di bambini. Quasi la metà per aver tentato di uccidersi o per problemi di autolesionismo e depressione, altri per curare dipendenze, problemi di alimentazione o far fronte alle pressioni dei bulli e alle diffamazioni sui social network. Tutti egualmente fragili, smarriti e totalmente privi di punti fermi. O di sogni.
Contabilità da brividi
I numeri in Italia fanno impressione. I suicidi sono 4mila ogni anno. Tra gli adolescenti i tentativi sono saliti al 5,9%, vale a dire che sei su cento hanno desiderato, almeno una volta, farla finita. Gli psicologi parlano di un «profondo disagio esistenziale». Sempre più diffuso, precoce e profondo. Che non sempre ha a che fare con patologie o disturbi mentali, anzi. «I ragazzi hanno una visione molto negativa del loro futuro - spiega Francesca Maisano, cercando di trovare un denominatore comune tra le varie forme di mal di vivere adolescenziale -. Fin da piccoli convivono con una forte ansia da prestazione. Spesso i genitori li rendono troppo competitivi, li indirizzano verso modelli preconfezionati, li iperstimolano». I genitori, appunto. Spesso assenti, poco definiti nel loro ruolo, impreparati a capire davvero i drammi dei Millennials. Già, perché gli adolescenti di adesso sono ben diversi da quelli degli anni Ottanta e Novanta.
«Sono molto esibiti - spiega la psicoterapeuta adolescenziale -. Lo sono da quando sono nati, con miriadi di foto sui social. Ogni attimo della loro vita è usato on line per vanità dei genitori, che mettono in vetrina il risvolto estetico delle cose. Un adolescente, che già fatica a tenere a bada il suo narcisismo, vive l'esibizione sui social come qualcosa di deleterio». Oppure deve fare i conti con le foto pubblicate da sua madre in pose osé ed eccessivamente ammiccanti. Senza arrivare ai casi estremi di cyberbullismo, il disagio adolescenziale nel 2018 non può essere raccontato senza considerare i post di Facebook e compagnia.
«Dobbiamo condurre due battaglie importanti - spiega Luca Bernardo, direttore del dipartimento di pediatria del Fatebenefratelli e della Casa pediatrica -. La prima riguarda la responsabilità o corresponsabilità dei social, la seconda riguarda i like che condizionano l'intimità dei nostri ragazzi, una costante esibizione di sé che ha effetti negativi sia in caso di successo (perdita della propria identità) sia in caso di fallimento (emarginazione, isolamento).
E l'asticella si alza continuamente: dal sexting all'autolesionismo a sfide demenziali in arrivo da Oltreoceano. Girano ad esempio video dove la prova consiste nel mangiare le capsule dei detersivi, con rischi per la salute immaginabili. O ancora, la sfida a chi ingerisce più sigarette o gessi della lavagna. Gli adescamenti partono spesso dalle chat dei videogiochi o da messaggi virali su web e social. Ai genitori dico: attenti ai cambiamenti repentini delle abitudini dei vostri figli ad esempio un cambio improvviso del giro delle amicizie, frequenti mal di testa o nausea potrebbero essere sintomi di un particolare disagio, cosi come un cambiamento del rendimento scolastico o il rifiuto a voler frequentare luoghi di aggregazione. O ancora euforia o eccitazione immotivata. In famiglia dovremmo cercare di dare il buon esempio: non utilizzare gli smartphone a tavola o al ristorante, cercare il dialogo o comunque mettersi in ascolto».
Anche se non intenzionali, sono tanti i suicidi provocati da giochi che circolano su You Tube. Sfide terribili che mettono alla prova il coraggio dei ragazzi, spinti a filmarsi mentre cercano di battere record di apnea o di stare sdraiati sui binari il più a lungo possibile.
Morire per gioco
Le mode arrivano dagli Stati Uniti e purtroppo hanno attecchito anche in Italia. Pochi giorni fa a Parabiago, vicino a Milano, un ragazzino di 15 anni è morto sulle rotaie per colpa di una gara di resistenza con un amico. Igor Maj, un ragazzino di 14 anni di Milano appassionato di arrampicata, si è impiccato con una corda da roccia nella sua camera dopo aver scaricato da Google le regole del «gioco» e aver visto parecchi video su You Tube. Per lo stesso tipo di sfida, a Tivoli, vicino a Roma, un ragazzo è morto soffocato con il cavo della sua Playstation. Il web ha alzato l'asticella della prove di iniziazione tipiche dell'adolescenza e le ha trasformate in qualcosa di diabolico. Per le ragazzine è normale fotografarsi discinte in pose sexy, girare video in slip e via dicendo. E purtroppo per i bulli sul web è altrettanto normale pubblicare on line questi video, dando in pasto all'infinito mondo del web l'intimità acerba delle «amiche». Senza rendersi conto delle conseguenze. Il 60% delle vittime di cyberbullismo ha tentato il suicidio. Emblematico il caso di Carolina Picchio, filmata mentre è priva di sensi da un gruppo di compagni che simulano atti sessuali su di lei. La ragazzina, 14 anni, si toglie la vita trovando nel suicidio l'unica via per liberarsi dagli insulti su Internet.
Rispetto agli altri casi, la sua storia è differente. Carolina infatti lascia un bigliettino: «Il bullismo tutto qui? Siete così insensibili» accusa i «suoi» bulli.
Un messaggio che consente al Tribunale dei Minorenni di Torino di celebrare il primo processo sul cyberbullismo in Italia, con condanne esemplari: le condotte, anche virtuali, non possono essere derubricate a semplici «ragazzate». Da qui nasce la legge 71/17 contro il cyberbullismo, che punta a prevenire i suicidi ma anche ad aiutare i bulli. E ad abbassare quei livelli di aggressività e di violenza normalizzati dalla generazione dei 15enni.
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