Rahman, salvato dal patibolo grazie all’intervento dell’Italia

Guido Mattioni

Sarà anche cieco, il fanatismo religioso, ma certo non si può dire che abbia la memoria corta. Era la fine di marzo di quest’anno, quando un piccolo uomo afghano, Abdul Rahman, sbarcò salvo in Italia su pressione di molti governi (da quello di Roma, con l’impegno in prima persona dell’allora ministro degli Esteri Gianfranco Fini, a quello di Washington) di diverse organizzazioni internazionali e perfino di quella del Papa. Ma la sottrazione al boia di quell’uomo che aveva avuto la colpa di aver abbandonato l’Islam per convertirsi al cristianesimo, aveva aperto una ferita considerata mai più rimarginabile dalle frange più estreme dell’islamismo. Una rabbia covata per mesi, quella di non poter porre fine all'esistenza di un apostata, di un rinnegato. Una rabbia insopprimibile che ha trovato nel sequestro in Afghanistan del fotoreporter italiano Gabriele Torsello la sua possibile valvola di sfogo. L’unica conosciuta dai vigliacchi e dagli assassini: una testa in cambio di un’altra.
Era stato del resto un escamotage giuridico - considerare l’uomo infermo di mente - a salvare la vita in extremis al povero Rahman, che proprio in aula, davanti alla corte che lo processava per apostasia, aveva coraggiosamente ammesso di aver rinnegato già 16 anni prima il Profeta e scelto in suo luogo il simbolo della croce. «Tentiamo di affrontare questo affare con rapidità e di trovare una buona soluzione», aveva dichiarato allora ai giornalisti il giudice incaricato di occuparsi del caso, Ansarullah Mawlavizada. Sottolineando - forse a scanso di pericolosi fraintendimenti da parte delle più calde tra le teste locali - che «l’Islam è una religione di pietà, di tolleranza e di perdono».
Sarà. Sta di fatto che quell’ammissione di rifiuto dell’Islam, pur se fatta nel nuovo Afghanistan, quello non più in mano ai talebani, valeva da sola, sulla carta, senza nemmeno la necessità di dover attendere la sentenza, una condanna a morte. Con il risultato che quell’escamotage dell’infermità mentale, salutato con un liberatorio grido di gioia in tutto l’Occidente, era stato vissuto invece in patria come un insulto. Un’offesa che aveva urtato irrimediabilmente le suscettibilità di buona parte dei musulmani più estremisti. Compresa una componente non irrilevante dello stesso governo di Kabul, proprio quello guidato dal presidente filo occidentale Hamid Karzai. Il quale, dopo la decisione della corte di rimandare a casa Rahman con la giustificazione che non ci stava troppo con la testa, non aveva perso tempo a dare il suo via libera per il trasferimento all’estero dell’uomo, la cui presenza in patria era sicuramente divenuta per lo stesso Karzai quantomeno scomoda.
Così, nel giro di poche ore, un frastornato Abdul era arrivato segretamente in volo in Italia grazie all’impegno profuso dal ministro Fini e da una task force della Farnesina. E dopo il suo arrivo era stato trasferito in una località protetta dove si trova tuttora per sottrarlo all’ira di qualche folle estremista.
«In Afghanistan non voglio tornarci mai più - erano state le sue prime parole subito dopo aver toccato il suolo italiano -. Perché là, chi cambia religione viene perseguitato e rischia la vita». E per salvargliela si erano mossi in tanti.

Detto di Gianfranco Fini, e menzionato anche il forte impegno del governo americano con l’intervento fattivo del segretario di Stato Condoleezza Rice e con le parole commosse dello stesso presidente George Bush - «Sono profondamente turbato dal destino di quest’uomo» - va ricordato anche il ruolo di primo piano giocato nella vicenda dalla Germania, paese in cui Rahman aveva vissuto per nove anni prima di rientrare in Afghanistan. Un impegno, quello profuso dal cancelliere Angela Merkel, che aveva inasprito e non poco i rapporti tra Berlino e Kabul.

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