Musica

Il rap, la favola nera con cui i ragazzi si raccontano agli adulti

Le baby gang, la violenza, gli arresti: la musica trap ha il coraggio di dirci le cose come stanno, senza filtri

Il rap, la favola nera con cui i ragazzi si raccontano agli adulti

Lo so, i vostri figli ascoltano rap e trap, nelle cuffie hanno Rondodasosa, Lazza, Baby Gang, Capo Plaza, Shiva. Tra loro si chiamano «bro» e «fra» e vi chiedono soldi per costosissime scarpe da ginnastica o per felpe e accessori di marca.

Lo so perché il rap e la trap oggi, dalle grandi città alla provincia, sono dappertutto: nella casse portatili che i ragazzini sparano a tutto volume sui mezzi pubblici, nelle radio che si ascoltano in bar e supermercati, ai primi posti delle classifiche di Spotify e con milioni di visualizzazioni su YouTube, per non parlare dei social come Instagram e TikTok.

E soprattutto so che molti di voi genitori sono preoccupati: perché i rapper usano spesso un linguaggio violento, parlano di furti, rapine, risse, ostentazione del lusso, miraggi di bella vita e successo facile; perché un paio di loro - Simba La Rue e Baby Gang - sono finiti nelle notizie di cronaca nera per aver commesso dei reati; e perché alla fine capitolate al pensiero che questo mondo dei vostri figli parla una lingua completamente diversa, filtrata con l'auto tune, sopra ritmi oscuri e lontani dal pop, dal rock o dalla musica della vostra giovinezza.

Quando qualcuno degli adulti la ascolta spesso la reazione è: «Ma che è sta schifezza?». Ecco, l'invito che vi faccio è ad andare oltre. Provare a capire cosa c'è dietro. Il rap e la trap sono solo colpevoli di fotografare la realtà così com'è, non vogliono fare la morale, non danno giudizi. I testi delle canzoni non sono consolatori come quelli del pop sanremese, ma ci mostrano quello che non vogliamo vedere. E la realtà è che i ragazzi di oggi hanno un sistema di valori ereditato dal nostro e che ora ci torna indietro come un boomerang a ritmo trap: individualismo esasperato, culto del denaro e del consumo e un certo sessismo (già presente in decenni di musica rock) si presentano in un contesto sociale sempre più frammentato, con un divario esponenziale tra chi ha e chi non ha, tra ricchi e poveri, tra centro e periferie. Siamo stati abituati ad ascoltare il suono delle periferie - quelle fisiche e quelle culturali - solo quando esprimono un messaggio rassicurante, di riscatto e formazione, la favola che dal disagio e dalla povertà si esce solo con l'abnegazione e i buoni sentimenti. Non è così, ed è proprio questa la rivoluzione del rap e della trap: la capacità di darci cattive notizie, di dirci le cose come stanno.

Basta farsi un giro a Milano le sere del fine settimana tra Corso Como e il Bosco Verticale, con i maranza che dalle periferie con la metro verde e lilla calano in centro, per capire cosa sta succedendo oggi, e perché criminalizzare un genere musicale solo perché un paio di trapper hanno avuto guai con la giustizia non sia certo la soluzione.

Nel mio libro Morte di un trapper - che, pur essendo un romanzo noir, cerca di raccontare alcune vere sfaccettature di questo nuovo mondo - c'è un passaggio abbastanza esemplificativo: il protagonista X - un rapper 40enne un po' decaduto e depresso che si ritrova a indagare, «detective per caso», sulla morte di un ventenne amante della trap - incontra Mohamed, che da sempre si fa chiamare Mimmo, mentre frigge delle patatine in un chiosco di Porta Genova a Milano a quattro euro all'ora. «Sai quante patatine devo friggere per comprarmi le tue scarpe?». Mimmo come tutti i ragazzini conosce e desidera sneakers, le più care sono status symbol generazionale e quelle di X costano 400 euro, ovvero cento ore di patatine fritte: «Oppure ti punto questo coltello alla pancia ed evitiamo tutti sti calcoli». La forbice tra ricchi e poveri a Milano è sempre più alta, i ragazzini passano le giornate a scrollare i social vedendo gente pseudo famosa che fa la bella vita su uno yacht a Ibiza con orologi e vestiti costosi, e alla fine il risultato è: se non me lo posso permettere economicamente, me lo prendo lo stesso. La cattiva notizia è proprio questa, dobbiamo imparare a farci i conti.

E davvero non so come si faccia a uscire da questa situazione. Forse bisogna chiederlo a persone come Don Burgio, che da anni con l'associazione Kairos aiuta gli adolescenti in difficoltà, intercettando i ragazzi dove abitano, anche nei momenti informali. Educazione di strada e di cuore.

Forse bisogna ragionare su una parola che compare nella stragrande maggioranza di testi rap e trap ed è «rispetto». Cosa significa? Rispetto anche dei genitori verso i figli? E i ragazzi stessi che tipo di rispetto vogliono tra i coetanei? Finché non capiamo e non definiamo che cosa significa rispetto, non arriviamo al centro della questione.

Per fortuna non ci sono solo cattive notizie. Non tutti i trapper che parlano di rapine, risse e furti poi compiono reati, sono un'esigua percentuale che non val neanche la pena calcolare. Non tutti quelli che utilizzano un linguaggio violento sono violenti. Del resto il rap è nato 50 anni fa a New York proprio per tenere i ragazzi lontano dalla violenza di strada. Il messaggio era: mettete la violenza nelle vostre parole, nelle canzoni, così evitate di prendervi a revolverate e coltellate per strada. La violenza dei testi fa parte del rap fin dagli esordi ed è anche un modo per elaborarla, esorcizzarla, senza spargimenti di sangue.

L'altra buona notizia è vedere molti ragazzini neanche maggiorenni, che magari arrivano da contesti famigliari sociali ed economici difficili, decidere di mettere in rima quello che vedono o quello che vogliono che noi vediamo di loro. Scrivono sulle note del cellulare, usano parolacce e uno slang di non immediata interpretazione, ma riescono comunque attraverso la scrittura dalle loro canzoni a creare un ponte di comunicazione tra il loro mondo e l'esterno.

È un ponte stretto e scivoloso, ma vale la pena attraversarlo per capire e comunicare con i nostri figli.

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